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[Focus] Cosa sta succedendo a Bordeaux. Crisi, espianti, soluzione, insegnamenti

ABSTRACT

Bordeaux è il cuore del mondo del vino. Lì è nato il vino moderno a metà del ’600 e lì c’è la più importante piazza mondiale per il suo commercio.
A partire dalla metà degli anni 2000, la crescita di prezzo dei vini più importanti di Bordeaux ha avuto un’accelerazione pazzesca. In quegli stessi anni, tutto il resto della zona è stato attraversato da una crisi da eccesso di produzione, che non si è mai realmente risolta.
Nei mesi scorsi avevano fatto notizia le proteste dei viticoltori di Bordeaux che chiedevano indennizzi per estirpare le proprie vigne.
L’Europa tuttavia vieta quel tipo di aiuti dal 2008 e così serviva un escamotage che è stato trovato tirando in ballo la prevenzione da malattie che potrebbero diffondersi dai vigneti abbandonati.
Verrà così finanziato con risorse pubbliche, l’espianto di 10.000 ettari di vigne bordolesi (come espiantare in un colpo solo tutte le vigne iscritte a Chianti Classico e Barolo). Una soluzione definitiva? Forse, ma di sicuro una soluzione che crea un precedente ed una vicenda che offre spunti di riflessione.

Bordeaux È il vino

È a Bordeaux che il vino moderno è nato. Il merito è di un uomo geniale che nella seconda metà del ‘600 mise in atto una rivoluzione che partì dalla creazione di un brand applicato al prodotto vino, fino ad arrivare all’incoming di influencers dell’epoca e a ricevere la prima nota di degustazione della storia (passando per una strategia di posizionamento attraverso il prezzo, l’apertura di un ristorante a marchio aziendale e altre cosine da niente!). Un genio che dovrebbe essere conosciuto da chiunque intenda lavorare nel mondo del vino: Arnaud III De Pontac. Non è del resto un caso che Haut-Brion sia l’unico premier cru classé del 1855 ad esser situato nelle Graves e non invece in quel Medoc che gli olandesi avevano strappato al mare, lasciando in dote un terroir unico a quella Bordeaux che, proprio per prima mano di Pontac, dette loro il ben servito per tornare a vendere al mercato inglese. Ed è ancora a Bordeaux che il vino moderno è diventato oggetto di comunicazione globale con l’invenzione di Robert Parker (nel senso che è stata Bordeaux ad inventare Robert Parker, traendone nuova linfa per confermarsi come capitale mondiale del vino). Ed è ancora Bordeaux la place unica al mondo per vendere i vini più importanti e costosi del globo.

Questo per chiarire, se ci fossero dubbi in proposito, che stiamo parlando del cuore pulsante del mondo del vino. Un cuore che però negli ultimi anni è stato periodicamente attraversato da crisi profondissime che sono sfociate pochi giorni fa nella decisione di espiantare 10.000 ettari di vigneti bordolesi. Follia? Nient’affatto. E proprio perché Bordeaux è il cuore del mondo del vino, è opportuno conoscere quanto è accaduto per trarne insegnamenti che possono essere validi ovunque.

Le due facce di Bordeaux: il vino come investimento

Andamento dei prezzi dei premiers crus di Bordeaux

L’investimento nel vino ha esempi che risalgono al Settecento, ma è a partire dal boom economico degli anni ’80 che il vino come prodotto d’investimento inizia a costruirsi in modo compiuto. In quel decennio il vino di qualità inizia a diventare un bene di interesse globale, conquistando il mercato USA che fino ad allora era stato appannaggio solo di vini di basso prezzo, e sempre in quel periodo molti iniziano ad investire in beni di lusso, tra cui anche il vino. In particolare, durante questo periodo, i vini francesi, in particolare quelli della regione di Bordeaux, diventano oggetto di interesse per gli investitori, grazie a quel particolare sistema di vendita che è l’en primeur e grazie ai punteggi di Parker, che fungono da veri e propri ratings finanziari.
Un altro momento cruciale è stato l’inizio degli anni 2000, quando i prezzi dei vini di alta qualità sono aumentati in modo significativo, raggiungendo livelli record. Questo aumento dei prezzi è stato alimentato dalla crescente domanda dei mercati emergenti, come la Cina e la Russia, che hanno cominciato ad apprezzare sempre di più il vino pregiato come simbolo di status e di prestigio. Ancora una volta Bordeaux è stata l’epicentro di questa nuova scossa.
Negli ultimi anni, il mercato del vino come investimento ha continuato a crescere e con lui anche il fenomeno – che meriterebbe una trattazione a parte, ma che qui segnaliamo solo a margine – del collezionismo. Con sempre più investitori e collezionisti che acquistano bottiglie di vino costoso o come parte del loro portafoglio di investimenti o come arricchimento della propria cantina. Tuttavia occorre segnalare che si sono andati moltiplicando in modo esponenziale anche i casi di contraffazione (il più celebre quello che ha avuto come protagonista Rudy Kurniawan) che rendono l’investimento nel vino ancor più rischioso di quanto già non sia. Per dare un’idea, delle 10 notizie più rilevanti del 2022 secondo Wine Spectator, ben 2 riguardavano casi di contraffazioni milionarie.

Ma se questa storia riguarda i premiers crus di Bordeaux e pochi altri grandi nomi, capaci di stare a quel livello, qual è la situazione per tutti gli altri?

Il vino come disastro

Un bel bric bordolese?

La prima onda di crisi arriva proprio a inizio anni 2000, quando gli impianti massivi degli anni ’90 iniziano ad andare pienamente in produzione. Esattamente quando i prezzi dei premiers crus e dei pochi altri Petrus della zona schizzano alle stelle, il resto di Bordeaux si trova in una situazione ben descritta da questa analisi del 2004:

A metà degli anni ’90, quando un rosso di base costava 1.500 euro al barile, molti produttori hanno investito pesantemente in nuove attrezzature e terreni. Il Bordelais è passato dai 75.000 ettari di vigneti del 1980 agli oltre 120.000 attuali. Può produrre sette milioni di ettolitri di vino, ma attualmente ne vende meno di cinque milioni […] Oggi [nel 2004 ndr] secondo gli osservatori del settore, un barile da 900 litri viene venduto a 710-760 euro, ovvero 0,62 euro a bottiglia all’ingrosso, rispetto ai 1.500 euro della fine degli anni Novanta. Negli ultimi 12 mesi, le esportazioni sono diminuite del 9%. Il 10-20% dei 9.000 produttori della regione si trova in difficoltà finanziarie di vario grado. “Il crollo dei prezzi di alcune DOC di Bordeaux ha raggiunto un livello inaccettabile che minaccia la vitalità dei nostri vigneti, l’unità del nostro settore, la stabilità delle nostre istituzioni e la nostra immagine in Francia e nel mondo”, ha dichiarato Jean-Louis Trocard, presidente del CIVB [il Consiglio del Vino di Bordeaux ndr]. “Questa situazione non può continuare” [1].

Parole incredibilmente (per quanto facilmente) profetiche, quella dell’allora presidente Trocard. Tanto che nel 2009 arriva la seconda ondata di una crisi che ne vedrà di periodiche da quel momento in avanti. Il dato infatti è strutturale e le ragioni sono nei numeri di cui sopra. Nel 2009 si arriva addirittura al paradosso per cui i traders inglesi, storici partner delle aziende di Bordeaux, rispediscono il vino da poco acquistato al mittente.

I commercianti britannici stanno rivendendo il vino pregiato alle controparti di Bordeaux e lo stanno esportando in Asia, mentre la domanda interna per il vino più costoso crolla e la sterlina si indebolisce rispetto all’euro.
Tom Hudson, direttore di Farr Vintners, il più grande specialista di Bordeaux nel Regno Unito, afferma: “Il commercio all’interno del Regno Unito è rallentato drasticamente … ora facciamo molto affidamento sulle esportazioni”. Hudson ha affermato che l’Asia ha sostituito gli Stati Uniti come mercato chiave per le esportazioni.[2]

Collasso

Le proteste dei vignaioli di Bordeaux a dicembre 2022

A partire dall’autunno 2022, la crisi ha portato i vignaioli di Bordeaux a formare un fronte compatto nel proporre l’unica soluzione possibile: l’espianto di migliaia di ettari di vigneti. Il problema è che gli agricoltori chiedevano indennizzi economici per gli espianti nell’ordine di circa 10.000 € per ettaro. Il piano di espianti proposto andava da un minimo di 5.000 ettari ad un massimo di 20.000. I conti sono presto fatti: gli aiuti richiesti andavano da 50 a 200 milioni di euro, che il Ministero dell’Agricoltura francese avrebbe dovuto versare. Peccato che il diritto europeo vieti questo tipo di aiuti, che vennero eliminati con la riforma della PAC entrata in vigore nel 2008 [3]. La cosa non ha fermato i vigneron dal fare pressione sul proprio Ministero dell’Agricoltura.

A partire dallo scorso dicembre diverse le manifestazioni per chiedere allo stato la ‘distillazione di crisi’ per sovvenzionare la distruzione delle eccedenze di vino, che da quest’estate potranno essere trasformate in alcol per l’industria, la farmacia o la cosmesi. La crisi del settore è stata anche al centro dell’ultima assemblea nazionale del sindacato Vignobles Indépendants de Gironde, che riunisce circa 2.500 viticoltori, il 17 febbraio. [4]

La pressione esercitata dalle associazioni di settore ha infine ottenuto ciò a cui mirava, grazie ad un escamotage che crea un precedente non trascurabile.

Motivi di prevenzione fitosanitaria

Dopo nove mesi di trattative con i rappresentanti dei governi locali, regionali e nazionali, il 1° marzo il Consiglio del Vino di Bordeaux (CIVB) ha raggiunto un accordo con Marc Fesneau, ministro francese dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, per il finanziamento del prelievo delle viti. […] Annunciando l’accordo del 1° marzo, Fesneau ha dichiarato: “Saluto il lavoro di consultazione svolto negli ultimi mesi, con l’industria vinicola della Gironda e la regione, per trovare soluzioni durature alla crisi del settore e per gestire le questioni fitosanitarie del settore sul territorio”.
La parola chiave per trovare una soluzione è “fitosanitario”. Sebbene la normativa europea vieti di finanziare l’estirpazione delle viti quando le ragioni sono di natura economica, ma la legge consente di finanziare l’estirpazione quando le viti presentano problemi fitosanitari. Con i coltivatori che rischiano il fallimento, Bordeaux avrebbe potuto ritrovarsi con migliaia di ettari di vigneti abbandonati. “Siamo in una situazione in cui se le viti non vengono mantenute e trattate, ci saranno malattie che si diffonderanno alle viti vicine”, ha dichiarato Christophe Chateau, portavoce del CIVB. Oltre ai parassiti, malattie come la perniciosa flavescenza dorata e il virus delle foglie rosse prosperano nei vigneti trascurati. [5]

I viticoltori di Bordeaux avranno a disposizione uno speciale pacchetto di aiuti finanziari. Il governo fornirà 38 milioni di euro, mentre il CIVB metterà a disposizione altri 19 milioni di euro. Inoltre, la regione Nouvelle-Aquitaine ha destinato 10 milioni di euro per incentivare la conversione dei vigneti ad altre colture. I coltivatori che aderiranno al programma riceveranno almeno 6.000 euro per ettaro per coprire i costi dell’espianto dei vigneti. Sebbene questa cifra sia inferiore rispetto ai 10.000 euro per ettaro inizialmente richiesti, i vignerons potranno accedere ad ulteriori finanziamenti per convertire i loro terreni in progetti di cattura del carbonio, riforestazione o ristrutturazione per la coltivazione di nuove colture. In questo senso il CIVB ha già avviato un progetto in collaborazione con l’organizzazione forestale Alliance Forêt Bois per riforestare oltre 4.500 ettari di vigneti abbandonati.

La soluzione del sostegno all’espianto per motivi fitosanitari, fa venire in mente che fatta la legge, trovato l’inganno. Laddove un domani un qualunque altro stato membro avesse a ricevere pressione per sostenere finanziariamente l’estirpazione di vigneti, sicuramente potrà addurre le medesime ragioni addotte dal Ministero francese ed ottenere il via libera. Viene da chiedersi il senso di quella riforma del 2008, nella parte relativa al divieto di sostegno all’espianto, alla luce di quanto accaduto.

In totale si prevede che saranno espiantati circa 10.000 ettari di vigne bordolesi (grossomodo come estirpare il totale delle vigne iscritte a Barolo + quelle a Chianti Classico).

In conclusione

Le vigne di Bordeaux, da vineyards.com

10.000 ettari sembra una cifra monstre, ma ricordiamo che a Bordeaux ci sono 120.000 ettari di vigne (per dare un’idea delle proporzioni: il totale delle vigne presenti nell’intera Toscana sta sui 60.000 ettari). La soluzione adottata certamente riduce in maniera sensibile e strutturale la produzione totale di Bordeaux, ma viene da chiedersi se possa essere una misura sufficiente. La corsa alla piantagione degli anni ’90 ha messo le radici di una crisi che è durata decenni e che solo ora trova una prima vera inversione di rotta.
Una crisi generata da una spinta istintiva ad approfittare di un momento che si pensava eterno e che invece è corso via rapidissimo proprio perché lo si riteneva eterno. Una crisi costruita con numeri che nemmeno il mito di Bordeaux ha saputo sostenere e questo dovrebbe essere un monito per chiunque. Se nemmeno il cuore dell’enomondo, il luogo dove il marketing del vino è nato ed ha sviluppato tutte le sue rivoluzioni più importanti, insomma, se nemmeno Bordeaux può reggere al peso di numeri insensati, come possono sperare di farlo altri? Un insegnamento che tuttavia giunge tardivo anche per tante zone del vino italiano che della corsa al vigneto hanno fatto quasi un marchio di fabbrica.

[1] The Irish Times
[
2] Financial Times
[3] Commissione Europea
[4] Ansa
[5] Wine Spectator

[Cover photo credits: visitfrenchwine.com]

L’eleganza del Marroneto

Longilineo nella sua essenza senza mancare di potenza, un’orgia di profumi floreali ricopre un frutto di grande nitore e note di fresca balsamicità. Ciò che mi colpisce più di tutto di questo vino è la luce che sprigiona e il suo dinamismo. Madonna delle Grazie 2016 si discosta molto dal profilo classico del Brunello di Montalcino, tendenzialmente più calmo, riflessivo e di maggior peso: lui corre veloce nel bicchiere e devi sforzarti per non perdere piroette e cambi di passo. Amarena e buccia di agrume, sapido e arioso con note di erbe aromatiche, il tannino ha grande dolcezza senza rinunciare alla tensione e chiude interminabile su note di frutto sfumate.

Nonostante sia all’inizio della sua vita non esito a definirlo una delle più grandi bottiglie bevute nel 2022.

Il vino mi ha talmente impressionato che ho sentito subito il bisogno di andare a trovare Alessandro Mori per vedere come nasce questo Brunello come se avessi bisogno di chiudere idealmente un cerchio. Per me il vino è sopratutto questo: istinti e istanti irrazionali intorno ai quali tutto si muove.

Purtroppo Alessandro era assente a causa di un grave lutto ma il figlio Iacopo è stato un perfetto padrone di casa, molto preciso nel racconto e pieno di attenzioni, compresi alcuni momenti di puro divertimento.

Cerco di usare meno possibile il termine eleganza perché trovo sia talmente abusato da aver perso un po’ del suo significato ma in tutta onestà calza a pennello per racchiudere l’essenza del Marroneto.

Questa realtà viene acquistata dalla curia nel 1974 e il nome deriva dal fatto che c’era un essiccatore di castagne (marroni): gli otto ettari di terreno (sette a Brunello e uno a Rosso) sono esposti a nord e battuti dai venti durante la notte, il 75% di sabbia nel terreno fa da filtro naturale per l’acqua e il doppio cordone speronato accampanato fa da protezione per la vigna.

La prima annata prodotta è stata la 1980 ed oggi la produzione media si attestata sulle 45.000 bottiglie tra Rosso, Brunello e Brunello Madonna delle Grazie, che prende il nome dalla omonima chiesetta che veglia su questo terreno a 430 metri di altitudine.

In cantina regna l’ordine e c’è profumo di buono, il lavoro di pulizia maniacale delle botti si sente durante gli assaggi di questi vini, maturati senza controllo delle temperature in circa 13/15 botti da 26 ettolitri per periodi differenti a secondo dell’etichetta. Stagionati e non affinati, mi specifica Iacopo, perché il vino deve sentire e respirare il passaggio delle stagioni prima di essere poi assemblato.

La degustazione è stata fatta su tutte le botti di tre millesimi (2021-2020-2019) che verrano poi assemblate dando vita ai vari vini.

Siamo partiti con tre botti in fila atte a Brunello 2021: la prima molto più floreale su toni di violetta e rosa, la seconda con un frutto in evidenza, la terza con una speziatura di pepe davvero importante. Gli assaggi sono stati talmente tanti che potrei stare qua fino a domani se li descrivessi tutti ma preferisco dire cosa trovo nei vini della famiglia Mori.

Trovo quella cosa che poco mi piace nominare, una eleganza che ha pochi eguali, colori tenui, complessità, precisone e un frutto così succoso da perdere la testa.
I vini del Marroneto hanno profili slanciati che derivano da estrazioni gentili, lontani da dimostrazioni di forza inutili, vibrano in perfetto l’equilibrio tra energia e dolcezza. I grappoli spargoli da cui nasce Madonna delle Grazie da una parte danno una concentrazione di profumi e dall’altra una maggiore pressione al vino, che per distendersi necessita di più tempo con una permanenza in botte che va dai 40 ai 42 mesi, mentre il Brunello è mediamente più concessivo e riposa dai 36 ai 38 mesi.

Tra tutti gli assaggi di assoluto livello, ho avuto un vero e proprio sussulto su una botte di Madonna delle Grazie 2020 che probabilmente (la cosa non è ancora certa) diventerà una Riserva, vista la concentrazione gusto-olfattiva, e se chiudo gli occhi riesco ancora a sentire le sensazioni più scure e ricche di quel calice.

Insomma, grandissima esperienza per il corpo e per lo spirito e spero di tornare presto e recuperare l’incontro con Alessandro Mori. Intanto, con l’amico che era insieme a me, in auto all’altezza del casello di Modena sud, mentre Lucio Dalla cantava “La sera dei miracoli” mi è balenata in testa l’idea fare un verticale di Madonna delle Grazie. Mi sa che se ne vedrebbero delle belle.

Per il momento, sono già sceso in cantina due o tre volte e l’occhio mi è caduto su Madonna delle Grazie 2013 e se tanto mi dà tanto a breve avrò una bottiglia in meno sugli scaffali.

Com’è il secondo vino di un grandissimo produttore (Chateau Margaux)

L’occasione fa l’uomo ladro e dopo il piccolo vino di un grandissimo produttore ci sono ricascato: come sarà il second vin di un grandissimo Chateau di Bordeaux? Ho pescato un’annata buona (1998) a un prezzo “vantaggioso” (150 €) del Pavillon Rouge di Chateau Margaux, conservato per un mesetto e poi avidamente stappato con tutte le aspettative del caso.

E quindi…

Un inizio timido e un po’ legnosetto mi ha fatto pensare al peggio ma se c’è una cosa che ho imparato sui Bordeaux è che sono come un diesel: partono lenti e rumorosi ma quando entrano in coppia iniziano a correre, trainando gusto, piacere e stati d’animo di chi li beve. Dopo neanche un’ora infatti così è stato: fragole in confettura e sottobosco, poi cenere, cuoio, pepe nero, beva carnosa ma comunque pimpante orchestrata da una vivacissima acidità e un tannino sabbioso che abbranchia lingua e gengive senza però affaticarle.

Ha concentrazione e complessità del grande vino ma non quella pesantezza che ti impedisce di finire una bottiglia in una serata, mi sono anzi dovuto trattenere. Riesco a diluire la bevuta in qualche ora e ogni tanto il vino va in standby, come se volesse riposarsi un po’, ma quando recupera ossigeno si rianima, mostrando ancor più classe e ampiezza, con note ferruginose, ancora frutta e polvere da sparo. Wow! Vino che dopo 23 anni è in uno stato di forma eccezionale e che ne avrebbe almeno per altri 10-15, un integrità pazzesca che normalmente mi stupirebbe se non fosse che parliamo di Bordeaux, dove la longevità media dei vini è paragonabile a quella degli abitanti di Ravenna.

Pavillon Rouge è composto da un blend di cabernet sauvignon (75%), merlot (20%) e petit verdot (5%), fermentati in botti di rovere, che riposano poi dai 18 ai 24 mesi in barrique al 50% nuove. Nasce da un’idea che risale addirittura al 17° secolo, anche se solo dal 1908 viene chiamato così (in precedenza commercializzato come Château Margaux 2eme vin). Negli anni ’30 ne viene interrotta la produzione, che poi riprende con l’arrivo del nuovo proprietario di Chateau Margaux (André Mentzelopoulos), che lo ha rilanciato nel 1978. La creazione di un terzo vino nel 1997 (chiamato semplicemente Margaux) ne ha aumentato l’importanza: da quell’anno in poi infatti si divide col grand vin due terzi dei vigneti aziendali, beneficiando però delle uve provenienti dalle parcelle più giovani.

Il caso ha poi voluto che, pochi giorni prima di bere questo vino, mi sia capitato di incontrare proprio Chateau Margaux in una super degustazione alla cieca. Ma questa è un’altra storia…

Damiano Ciolli, vignaròlo

“La cosa più bella di Roma è il treno per tornare a Milano”.
Scherzo ovviamente, tanto è vero che l’affermazione nasce al contrario e basta invertire le due città per trovare una delle espressioni tipiche del romano quando una trasferta lo porta nella città del Duomo.

Ve lo dice un uomo del nord, sangue misto di polenta e soppressata, milanese per nascita e calabrese di padre: fai una cinquantina di chilometri a sud-est di Roma e l’orizzonte ti sembra un Monferrato più selvatico. Perché anche noi rimpiangiamo i posti del cuore. Boschi con una vegetazione bassa frammisti a piccoli borghi sormontati da rocche, case che poggiano anche sulla roccia e poi vigne: pare che qui ogni famiglia possieda una terra che coltiva da sempre. Peccato per certa imprenditoria del vino sfuso improvvisata negli anni Ottanta, un bel tornado che ha spazzato via gran parte dei vigneti di qualità per sostituirli con vitigni da quantità. Addio a cesanese e malvasia, benvenuti trebbiano e merlot.

Arrivo in uno dei paesi d’elezione del cesanese: Olevano Romano si trova proprio a ridosso del monte Celeste, circondato dagli Appennini e in prossimità della valle del fiume Aniene. La zona è riparata, al mattino spira un vento leggero proveniente dal Mar Tirreno che evita i marciumi e l’irrigazione naturale è data dai temporali frequenti e mai troppo rabbiosi; la viticoltura ne guadagna.

Pochi chilometri di auto dal piccolo centro città e raggiungo la cantina Damiano Ciolli. Damiano mi accoglie in jeans e maglioncino grigio, il volto da attore del cinema romano, più Monicelli che Vanzina, anche se lo vedrei bene in un film dell’ultimo Verdone. La parlata è sciolta, l’accento è marcato, più ciociaro che romano, dice anche “bevere” che all’orecchio di un milanese dà il gusto di una porchetta d’Ariccia, di una foto con i gladiatori davanti al Colosseo.

L’azienda ha 7 ettari in produzione più 2 appena piantati in gran pendenza, il tutto per 3 vini: 2 Cesanese di Olevano Romano Doc (Silene e Cirsium) entrambi da cesanese di Affile in purezza, e un Bianco igt (Botte Ventidue) da 70% trebbiano verde e 30% ottonese. In vigna, biodinamica senza estremismi. Siamo a 400 metri circa sul livello del mare, esposizione prettamente a sud.

L’ettaro dal quale si fa il Cirsium è una meraviglia. Piante ad alberello per lo più anni ’50 che modificate in parete disegnano tanti cristi da pietà michelangiolesca con le dita tese alla Edward mani di forbice verso l’alto. Poco distante, uno dei quattro vigneti da cui proviene il Silene: Damiano mi mostra anche gli altri tre, tutti diversi per età delle viti, esposizione e terreno.

Nell’ultimo, il più giovane e ripido che consta di argille bianche, incontro Letizia Rocchi, intenta a potare in tenuta tecnica antifreddo. Tecnica è anche lei, con in tasca studi di enologia e un dottorato di ricerca che l’ha portata pure in America e che non si è esaurito in una cerimonia: qui continua e sperimenta, insieme a Damiano (che è pure suo marito), alla ricerca dell’eleganza. In cantina lieviti indigeni, fermentazioni spontanee, tecnica ed esperienza.

Degustiamo dal cemento le singole parti che poi messe insieme diventeranno il loro Silene, vino ottenuto da circa 10 giorni di macerazione sulle bucce e una sosta in cemento per un anno.

Vigna nuova di fianco alla vigna del Cirsium (40 ettolitri)
Si deve ancora fare, ma quello che si nota è la freschezza, buona sapidità, corpo snello, sentori ferrosi, non a caso il terreno è vulcanico.

Vigna Colle Amici (40 ettolitri)
Qui corpo, struttura, una nota balsamica molto presente, non ancora in equilibrio.

Vigna nuova (20 ettolitri)
Struttura ma soprattutto naso e bocca, bella complessità. Spezie dolci, terra, erbe e una nota affumicata. Questi sono odori e sapori che ritroveremo più eleganti in Silene, il mio assaggio preferito!

Vigna Cerreto (20 ettolitri)
Frutta e succo, viola e ciliegia, bella materia viva.

Immagino i vini assemblati e con un esercizio d’immaginazione ci ritrovo, al netto delle annate, i Silene fatti e finiti bevuti negli anni passati. Affascinante.

La Riserva Cirsium è un altro vino, come diversa è la vigna singola da cui proviene. Un anno in botte grande, poi un anno in cemento, infine un anno di bottiglia. Più struttura, più complessità, più capacità di invecchiamento. Un vino con meno bevibilità, più importanza, da attendere, che nelle annate buone corre il bel rischio di stupire per eleganza e guadagna molto in beva.

Questi gli assaggi dei futuri Cirsium:
2022 (da botte)
Grande sostanza, pienezza, complessità; il frutto è ben presente, emerge la ciliegia, il tannino è scalpitante; si deve fare ma le premesse ci sono tutte.

2021 (in cemento)
Meglio, come deve essere d’altronde. Il sorso si alleggerisce e acquista eleganza, sia al naso che in bocca, una bella nota di pepe e sentori di liquirizia in stecca, note ferrose e incenso, tannino più integrato e finale già lungo.

Il Cirsium 2020 se ne riposa in bottiglia ma non l’ho assaggiato mentre il 2019 al momento è il mio preferito. Se lo trovate pijatevelo o, come diciamo a Milano, catel sù!

Elogio del vino semplice

Il vino semplice non ha cittadinanza su queste pagine. Bevitori di châteaux, appassionati puntigliosi, professionisti del settore, critici e guidaroli, tutti lo snobbano. Perché lui, poverino, non ha etichetta – che orrore! – e lo vendono a litri. Diamogli voce, per una volta.

Il vino semplice è il proletario dell’enologia, non ha pretese di blasone né rappresentanti azzimati e ciarlieri. Al massimo gli è permesso sfoggiare una paternità di vitigno ed una DOC, ma ormai un cavalierato lo si dà a chiunque, che sarà mai? Se ci pensate bene però, è la colonna portante del vino italiano: la massa ettolitrica la costituisce lui, insieme all’infame fratellastro, il vino da bottiglione.

Quando arriva la fine dell’inverno, i vignaioli che lo producono aspettano il cliente che arriva con le sue damigiane nel baule. Tutto uno sciame di macchine dalla pianura allora risale i primi colli a prendere il vino nuovo in cantina. Lo faceva tuo padre, forse perfino tuo nonno, ed ora lo fai anche tu. E anche il produttore probabilmente è figlio o nipote di quello che per primo fornì la tua famiglia, e ti conosce da una vita.

Il vino semplice nasce in cantine modeste, arruffate magari, ma sincere. Non è destinato a finire sulle tavole domenicali, ad essere esibito sui social, recensito, vivisezionato, punteggiato, no. È il vino della mensa quotidiana, della bicchierata spensierata, del quartino che spegne la sete estiva, e della fetta di salame all’osteria. E non disdegna il vetraccio infrangibile, lui che è nato nudo.

Già, perché il vestito glielo darai tu che te lo porti via e lo imbottigli a casa tua. Capiterà perfino che il vino semplice non riceva nemmeno quella minima dignità: basta che siano entrambi veneti, ed il bevitore poco distante dalla cantina, cosa facilissima, per passare in tavola direttamente da una dama o una tanichetta, e via così, in un andirivieni di settimana in settimana, come prelevare acqua da una sorgente.

Di solito però il viaggio ed il lavoro si fa una volta all’anno: certo, non è cosa da tutti, direte. Ci vogliono l’attrezzatura, gli spazi per lavorare, le bottiglie vuote e pulite, i tappi, i cartoni, la cantina fresca! Ed una schiena non troppo artrosica, se amate i dettagli.

Ma il lavoro si ripaga con tante piccole soddisfazioni, infine. Specialmente se il vino semplice è anche buono. Di sicuro è più eco-compatibile dei suoi fratelli ricchi: veste sempre le stesse bottiglie, lavate anno dopo anno, usa i cartoni recuperati da altre cantine, ha il cappello riciclabile in polietilene oppure di latta, e se è di sughero finirà nel camino. La capsula non gli si addice, mica fa lo snob come i suoi fratellastri da supermercato, lui.

Quando fa veramente divertire il vino semplice è un vino frizzante. Che è un po’ tutta la tradizione che trovate risalendo la Via Emilia bolognese, e piegando a sinistra una volta raggiunto il Po. Piemontesi e toscani bevano il tranquillo e si tacciano, per una volta. I lombardi della Bassa e gli emiliani sorridono sornioni, e brindano felici: la gioia che donano queste sciampagne dei poveri, loro la conoscono bene.

Su questi colli dietro casa si producono secondo un sistema atavico dei vini semplici, bianchi e neri, che tramandano la centenaria allegria delle osterie padane. Lo schiocco all’apertura, le quattro dita di schiuma nel bicchiere, la bollicina ruspante che raschia la gola, tutto concorre a farvi passare un’estate dissetata e ad ottenere d’inverno il palato sgrassato dalle tante porcherie che si presenteranno in tavola. Però solo se il vino semplice sarà rispettoso della tradizione potrete godere del suo gustoso brio popolano.

Il segreto è banale: il vino semplice dell’Appennino settentrionale rifermenta una volta che cominciano i primi caldi. È la solita vecchia storia, i lieviti indigeni, un residuo zuccherino, la feccia fine, un po’ di torbido se lo versate fino in fondo, un tappo a tenuta e soprattutto una bottiglia resistente: ché quell’anno che gli gira, il vino semplice sfodererà anche lui le sue belle 6 atmosfere, che vi credete? Direte però che queste cose ce le abbiamo già sullo scaffale dell’enoteca senza scomodarci con tutto il trafficare di cantina; si chiamano Metodo Ancestrale, Sur Lie, Colfondo, No Autoclave, Vino Vivo, e via elencando. E sono pure di moda.

Vero, verissimo. Ma se farete quel tal viaggetto annuale dal vostro vignaiolo di fiducia, può anche darsi che al prezzo di un cartone da 6 già pronto, ne porterete via un’intera damigiana. E allora, mettendoci un po’ di lavoro, avrete in tavola sciampagna e festa tutti i giorni.

[Focus] Chianti Classico | Storia, territorio, UGA, terroir e assaggi

Abstract – Di cosa parliamo quando parliamo di Chianti Classico

. Il Chianti Classico ha una lunga storia di rapporto col vino, ma è un territorio vasto e di non facile lettura. Altitudini diverse, esposizioni diverse, terreni diversi ed anche stili e addirittura blend diversi (il disciplinare li consente).
. In un contesto simile diventa decisivo un elemento del terroir che è l’unico non dato dalla natura: il fattore umano.
. In questo report ho provato a dare una rappresentazione sintetica, ma esaustiva, di tutti questi elementi, aggiungendo alcuni suggerimenti sulla base delle degustazioni più significative fatte durante la Chianti Classico Collection 2023 (CCC23).

. Prima di partire con questo racconto due note:
1) La Chianti Classico Collection, anche quest’anno, è stata un appuntamento veramente ben organizzato. Complimenti al Consorzio
2) Quanto segue prende diversi spunti dal lavoro di Alessandro Masnaghetti, che troverete puntualmente citato in nota, ma che era giusto ringraziare in premessa.

La storia

I loghi del Consorzio dalla fondazione ad oggi

Il Chianti Classico è un territorio vasto, che va dalle porte di Siena a quelle di Firenze: “oltre 7.300 ettari di vigne, distribuiti su una superficie 10 volte superiore, danno solo una vaga idea della complessità della denominazione” [1].

Una terra dove nobili famiglie senesi e fiorentine avevano i propri possedimenti che si tramandavano e confondevano per discendenze e matrimoni e dove generazioni di mezzadri, che non possedevano altro che metà del frutto del proprio lavoro, hanno plasmato il paesaggio fino a giorni assai recenti. Ma la mezzadria fu abolita a partire dalla legge n. 756 del 1964 (e ci volle qualche anno per smantellare definitivamente l’assetto creato da quel contratto agricolo le cui radici affondavano nel Medioevo).
Molti di quei nobili pensarono così che fosse giunto il tempo di disfarsi di terre che non potevano più essere affidate alla fatica massacrante delle famiglie di mezzadri e su cui toccava pure pagare le tasse. Molti vendettero (alcuni lasciando in dote proprio ai mezzadri i poderi in cui questi vivevano). Altri invece si posero la questione di mettere a nuovo reddito quelle terre e fu così che insieme a una nuova generazione di imprenditori (spesso arrivati da fuori), posero le basi per costruire il mito del Gallo Nero.

Ma la storia del rapporto tra Chianti e vino risale a ben prima [2] ed ha un episodio cardine coi bandi di Cosimo III del 1716: il primo, quello del 18 luglio, “sopra il commercio del vino”, l’altro, del 24 settembre, “sopra la dichiarazione di confini delle quattro Regioni: Chianti, Pomino, Carmignano e Val d’Arno di Sopra”. Per la prima volta nella storia si emanano delle leggi specifiche per “proteggere” un prodotto agricolo d’eccellenza da frodi e sofisticazioni, tracciando precisi confini territoriali e dando istruzioni non già sulla produzione, quanto su trasporto e commercio [3].

Decisivo è stato poi il solco tracciato da Bettino Ricasoli, che spese gran parte della sua vita di vignaiolo (importante quasi quanto quella di uomo politico) per perfezionare la “formula” del vino del Chianti e in una famosa lettera del 1872 confermava “che il vino riceve dal Sangioveto la dose principale del suo profumo (a cui io miro particolarmente) e una certa vigoria di sensazione”.
Oggi la grande novità del Chianti Classico, inteso come Consorzio, è quella delle cosiddette UGA, acronimo per definire le menzioni geografiche che possono essere aggiunte in etichetta per i vini della categoria Gran Selezione. Qua su Intravino avevamo anticipato questa scelta del Consorzio di un anno circa ed avevamo dato ampia rassegna critica proprio della scelta della Gran Selezione.

Individuare zone che aiutino a costruire i caratteri peculiari dei terroir del Chianti Classico è una scelta che pare quantomai opportuna (che anzi poteva e doveva essere più coraggiosa). Ma in un territorio tanto vasto e variegato, complesso da un punto di vista orografico, geologico, climatico, dare dei caratteri chiari per esprimere il territorio attraverso il vino è principale responsabilità dei produttori. Per questo oggi più che mai è decisivo capire chi sta lavorando e come, per dotare queste menzioni geografiche (che, ribadiamo, per ora possono essere usate solo per i vini della categoria Gran Selezione) del carattere necessario ad essere individuate nel bicchiere e non solo in etichetta.

Il territorio

Mappa del Chianti classico. In rosso i crinali “montuosi”

La prima cosa da inquadrare sono i crinali montuosi della zona, con in primis la catena dei Monti del Chianti (la linea rossa più lunga sulla nostra mappa) da San Polo a San Gusmè, secondo una direttrice nord-ovest/sud-est, che segna ad est il confine con il Valdarno. Poi c’è un crinale più piccolo che unisce la zona di Castellina con Vagliagli e infine un crinale di giuntura, potremmo dire, che unisce Radda e Castellina. Questi crinali concentrano le zone più alte del Chianti Classico in una fascia esterna sul confine est e nelle zone centrali interne del territorio della denominazione. Questo fa sì che le zone più basse siano sui confini esterni, in particolare sui fronti nord (nella zona di San Casciano), ovest (le parti sudoccidentali di San Donato, Castellina e Vagliagli) e sud (in particolare nella zona di Castelnuovo Berardenga). In coerenza con questa conformazione del territorio, la mappa delle temperature medie mostra che le parti interne e i crinali sono le zone con temperature medie più basse, mentre quelle più calde sono proprio sui confini meridionali, occidentali e su quelli settentrionali.

Per quanto riguarda la geologia, tra i caratteri più classici del Chianti Classico ci sono il famoso alberese “un calcare marnoso con un alto contenuto di carbonato di calcio (CaCO3) dall’80 al 94%; la grana è mediamente fine; la frattura a forma concoide” e il galestro “uno scisto argilloso che si divide facilmente in solidi prismatici”. Vigne coltivate su terreni di macigno sono relativamente poche e concentrate in alcune zone che stanno nella zona di San Casciano, nella parte bassa di Castellina e Vagliagli, fra Albola e Radda, un po’ a Lamole e un po’ nella zona di San Polo. Nella parte sud di Castelnuovo Berardenga c’è grande presenza di quel che viene chiamato tufo, ma che in realtà sono sabbie marine di origine pliocenica, compattatesi nel corso dei millenni.

Consideriamo infine che le valli del Chianti sono spesso strette e per questo la posizione o la “giacitura” sulla collina hanno un ruolo fondamentale e ci sconsiglia dal dare letture troppo univoche anche di territori vicini. Fattori come le pendenze, l’esposizione ai venti, le ore di sole diretto, il drenaggio delle acque piovane ecc.. sono tutti estremamente dipendenti dalla posizione del vigneto. Per intenderci: qua non siamo in Borgogna, dove la lettura del territorio è relativamente semplice, qua siamo in Chianti Classico ed è un bel casino! [Questa lettura del territorio del Chianti Classico deve molto ad una masterclass tenuta da Alessandro Masnaghetti e che potete trovare in nota 4]

Il terroir

Le UGA del Chianti Classico

Non esiste terroir senza fattore umano (e chi dice il contrario lo fa per convenienza). E questo è tanto più vero in Chianti, per quei caratteri di varietà che abbiamo sopra illustrato. Ogni territorio del Chianti Classico che intende darsi un’identità riconoscibile deve farlo attraverso il lavoro dei vignaioli.
Diventare una comunità di vignaioli e produttori che lavorano una terra con caratteri comuni, renderà quei caratteri riconoscibili anche nei bicchieri. Se questo accade, allora si può parlare di terroir. E lo si potrà fare anche per ciascuna di quelle zone che oggi sono alla meglio dei territori, con alcune eccezioni, che vedremo

Quella che segue è una presentazione: dei comuni del Chianti Classico (con Panzano che merita una menzione a parte), del loro territorio, delle associazioni di vignaioli che stanno lavorando insieme ed infine di alcuni caratteri dei Chianti Classico assaggiati durante la CCC23.

 

Le zone e le segnalazioni

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Castellina

Con i suoi 578 metri sul livello del mare, è il paese più alto fra quelli che fanno comune all’interno della zona del Chianti Classico, ma ha un territorio che registra un forte dislivello, dato che si passa dai 180 m del punto più basso (nella zona di Castellina Scalo) ai 626 m del Monte Cavallaro. Una differenza che non è solo altimetrica, ma riguarda anche dimensioni e modalità produttive delle aziende che, nella parte bassa occidentale di Castellina giocano spesso la carta dei numeri, mentre nelle altre (complice il territorio) puntano su uno stile più fine.

Castellina e le sue zone

Il territorio di Castellina in Chianti può essere diviso in 3 zone.

La prima è la parte bassa, una fascia di territorio all’estremo occidentale del comune, i cui terreni sono più tipicamente argillosi e dove le colline si fanno dolci, le pendenze tendono al pianeggiante e le temperature medie sono in linea con le zone più calde della denominazione. Questa è la zona più vitata del comune e vi si trovano diverse aziende che producono milioni di bottiglie (Piccini, Cecchi, Rocca delle Macie per fare alcuni esempi), ma anche alcune aziende medie o medio-piccole che invece producono vini di bel frutto e struttura.
La seconda è la parte alta che guarda a ovest, intendo quella fascia di territorio che sta nelle zone più elevate del versante che da Castellina corre verso Vagliagli (vedi mappa sopra) e guarda senza ostacoli verso Poggibonsi, Colle Val d’Elsa e Monteriggioni. Le esposizioni migliori sono quelle che guardano a sud e sudovest, e che magari perdono un po’ di sole del mattino, ma permettono soprattutto a quello del tramonto di allungarsi sulle vigne fino agli ultimi raggi. Qua si trovano aziende di medie dimensioni, nomi importanti e lignaggi più o meno antichi (Castellare di Castellina, Fonterutoli, San Donatino, Gagliole per fare alcuni nomi) ed i vini che vi si producono sono spesso più leggiadri, più fini, più delicati, con una parte floreale molto evidente rispetto ad altre zone della denominazione.
La terza parte è quella che dal crinale castellinese scende ad est, verso La Piazza (vi si trovano aziende come Nittardi e Bucciarelli). Siamo quindi sul versante opposto a quello visto fino ad ora. Qua ci sono più boschi che vigne e vi si producono vini meno ariosi, ma non di rado interessanti.
Dunque dov’è il carattere di Castellina? Non è facile da dire. Tenere insieme questi approcci così diversi dovrebbe essere una scelta da gestire con attenzione. Più spesso è parsa un’accettazione del dato di fatto, lasciando questo territorio un insieme di aziende che condividono lo stesso comune di residenza e poco altro.

Aziende che fanno parte del Consorzio: 59
Associazione Produttori: Viticoltori di Castellina in Chianti
Membri: 35
Castellina non è stata molto valorizzata negli ultimi anni. Diverse aziende, soprattutto quelle più blasonate, invece di collaborare hanno teso più volentieri ad ignorarsi. Se la cosa non ha molto senso in assoluto, ancor meno lo ha oggi che altri, collaborando, hanno impresso una nuova marcia alla propria immagine comunale. Il fattore umano, in questo caso, non ha giocato a favore del territorio. L’associazione dei Viticoltori di Castellina, non molto attiva negli ultimi lustri, si è spesa di recente per la realizzazione del lavoro di Armando Castagno per raccontare Castellina.

Vini e aziende da segnalare
Ci sono aziende che vengono dalla parte alta di Castellina e sono ben note, come Fonterutoli e Castellare di Castellina, che anche quest’anno hanno presentato dei Chianti Classico molto ben fatti (molto floreale quello di Castellare), ma la mia segnalazione è per Castagnoli, azienda che anno dopo anno va confermandosi – secondo me – come una delle più consistenti dell’intero territorio. Nella parte più bassa segnalo due aziende come Pomona e Nardi Viticoltori a cui guardare oggi e anche per il futuro, entrambe avevano in assaggio due CC2020 davvero belli e precisi, giocati su un bel frutto. Infine, sulla parte opposta che guarda verso la Piazza, l’azienda Bucciarelli aveva fuori un CC 2016 veramente ganzo, rustico, non pettinato, ma di grande freschezza e bella acidità.

Radda

Il territorio di Radda è attraversato quasi interamente da quel crinale di giuntura che va dai Monti del Chianti verso Castellina e da lì, scendendo verso sud, ci sono le serie di valli dove si trovano le vigne più importanti della zona. Ma ci sono vigne anche subito sotto il paese, nella parte di territorio a sud-ovest e sulla parte opposta, a est, proprio verso i monti del Chianti (vedi sulla cartina Selvole).

Radda

Radda – Dettaglio

I crinali più celebri sono quelli che da sotto il paese di Radda, salgono verso nord. Vedete quei quattro raggi segnati in rosso che sembrano tutti partire dritti da Radda? Da ovest verso est (guardando la cartina da sinistra a destra) vanno verso: Monterinaldi, Castelvecchi, Volpaia e Pian d’Albola. Per quanto segnati sommariamente, servono a mostrare come al netto delle diverse inclinazioni, abbiano andamenti simili (nord sud) ed è tra quei 4 raggi che si trovano alcune delle aziende più celebri di Radda. Ma c’è anche quello spicchio verso l’estremo est (Selvole) che per quanto vicino ai 4 raggi ha un andamento leggermente diverso e ci sono diverse vigne anche nella parte sudorientale del comune di Radda (anche lì, in cartina, sono segnati i due brevi crinali più rilevanti di quella zona). Last, but absolutely not least: la zona immediatamente a sud del paese di Radda, dove si concentrano parecchie vigne, molte sono quelle più prossime al paese e diverse anche quelle poco distanti, ma su poggi diversi.

Aziende che fanno parte del Consorzio: 42
Associazione Produttori: Vignaioli di Radda
Membri: 26
Ci sono senza dubbio dei punti di coerenza territoriale (soprattutto nella zona più celebre delle vigne raddesi) e anche geologicamente ricorre sia una parte di macigno nelle zone più alte, che alberese e formazioni sillane  nelle altre. Ma il carattere peculiare dei vini di Radda (e direi del nuovo corso dei vini di Radda, che ha guadagnato la ribalta soprattutto nell’ultimo lustro) va oltre questo e abbraccia uno spettro più ampio di vini e aziende. E credo si possa azzardare che si è costruito grazie al contributo dell’associazione dei Vignaioli di Radda (di cui fa parte anche Montevertine). Toni scuri, a volte anche duri, tratti ematici in gioventù che spesso preludono a invecchiamenti di grandissimo fascino. Questi caratteri sono quelli che oggi rappresentano la cifra di Radda per merito di territorio, sì, ma anche del lavoro di un gruppo di vignaioli che mette insieme tanti fuoriclasse che sanno fare squadra (e non è un caso che la qualità media dei vini di Radda sia altissima e i toni spesso ricorrenti fra i diversi bicchieri).

Vini e aziende da segnalare
Tra quei 4 raggi di cui sopra, L’Erta di Radda e Carleone (la prima con un CC2020, la seconda con un CC2021) sono aziende che si sono già fatte un nome, ma da continuare a tenere sott’occhio anche per il futuro. Sempre vicino a quella zona (un po’ più verso ovest) c’è Istine e anche qui non scopro niente di nuovo, ma il CC2021 assaggiato era l’ennesima gioia in bicchiere. Così come non è stato nuovo l’entusiasmo per due bicchieri: CC2019 di Val delle Corti che viene da quella zona a sud del paese di Radda, e il  CC2021 di Monteraponi che invece si trova più a sud-ovest.

Gaiole

Il territorio di Gaiole è molto vasto (è la UGA con il territorio più vasto in assoluto: 12.900 ha), ma una buona parte di questo territorio è rappresentato dai Monti del Chianti, che occupano tutta la metà orientale del territorio comunale.

Gaiole

Gaiole – dettaglio

Nella zona montuosa le vigne sono poche e si affacciano sulla parte del Valdarno (le ho segnate con quei piccoli trattini in nero nella parte destra della mappa). Il grosso delle vigne sono nella metà occidentale e sommariamente raggruppabili in due lunghe strisce, una delle quali biforcata nella parte nord) che corrono quasi parallele in direzione nord-sud. È una rappresentazione piuttosto sommaria, che deve contare varie eccezioni, ma serve a semplificare e a dare un minimo di sistema ai punti sommitali su cui si trovano le vigne principali di Gaiole. Nell’immagine in dettaglio si può notare meglio come le due strisce segnate abbiano confini piuttosto vaghi ma minimamente riconoscibili. A parte ho cerchiato in giallo, nell’estremo sud, la zona più prossima a Castelnuovo Berardenga, anch’essa molto vitata e con temperature medie più alte. Geologicamente la zona dei Monti è caratterizzata da grande presenza di macigno, la parte centro-occidentale vede invece la prevalenza di alberese, mentre nella punta sud siamo ancora su quel “falso” tufo che in realtà sono sabbie marine di origine pliocenica, compattatesi nel corso dei millenni.

Aziende che fanno parte del Consorzio: 41
Associazione Produttori: Viticoltori di Gaiole
Membri: 12
Gaiole ospita alcune delle aziende più celebri e celebrate del Chianti Classico, ma trovare un filo che leghi i frutti del loro lavoro non è facile. Valli strette, tanti cucuzzoli, su ciascuno di essi un’azienda che fa storia a sé. Beh forse non è proprio così, ma… Sul sito dell’associazione dei Viticoltori di Gaiole le notizie sono ferme al 2019, segno che se già le aziende a far parte di questo gruppo erano poche, le attività non sono state molte di più. Peccato, perché Gaiole potrebbe essere qualcosa in più del comune con tante eccellenze, ciascuna per conto proprio.

Vini e aziende da segnalare
In questo caso gli assaggi fatti alla CCC2023 mi hanno raccontato di toni balsamici che al naso sono curiosamente tornati spesso. La mia degustazione andava in cerca di qualcosa da scoprire, più che di conferme per cercare di afferrare un filo da seguire anche nei prossimi anni. In questo senso i CC 2021 di Rocca di Montegrossi e Castello di Meleto, così come il CC2018 di Podere Il Palazzino sono stati i vini più coerenti e sorprendenti. Affascinante, anche se su toni più speziati che balsamici, Ricasoli. Menzione a parte, nel mio taccuino, l’ha meritata Riecine col suo CC2021, queste le note che mi sono appuntato: Naso intenso, ma di grande precisione in rosso. Bocca che mette insieme tutto: frutto, corpo, tannini, acidità. Vino che rasenta la perfezione per l’annata e migliore bevuta della mia personale Collection 2023. *****

Panzano

Circa 2900 ettari di territorio per questa UGA, ma ben 595 ettari vitati, che rappresentano il 21% circa del territorio totale. La densità più alta di vigne di tutte le UGA del Chianti Classico. E se qualcuno avesse dei dubbi sull’importanza del fattore umano nella costruzione del terroir, Panzano sta lì a dimostrare nei fatti che di dubbi non ce ne possono essere.

Panzano e la Conca d’oro

La lettura più puntuale del territorio di Panzano è quella di Alessandro Masnaghetti, che divide il territorio della UGA di Panzano in due versanti, prendendo come spartiacque “la strada che da San Casciano in Val di Pesa porta a Panzano e prosegue poi in direzione est verso Volpaia” (segnato in rosso nella mappa qua sopra.
Il versante più noto è quello di sudovest, lì si trovano la gran parte delle vigne e delle aziende di Panzano e si lì si trova anche la famosa Conca d’oro. Il nome “d’oro” è dovuto al fatto che lì, prima che il vino diventasse il prodotto che è diventato negli ultimi decenni del secolo scorso, si coltivava grano e l’oro era quello delle spighe mature. Si tratta di un teatro naturale dai suoli sono tipicamente argillosi e ricchi di galestro, che sta sotto il paese e guarda ad sud-ovest, con le vigne migliori storicamente considerate quelle con esposizione a sud. L’andamento delle ultime annate, sempre più calde, rappresenta una grande sfida per tutti i produttori, ma in particolare per quelli della Conca d’oro (dove le escursioni termiche tra giorno e notte sono piuttosto contenute) e di questa parte di Panzano in generale. Vini che hanno una bella pienezza da giovani, ma che a volte lasciano qualche dubbio sulla tenuta nel tempo.
Potrebbe dunque trovare nuovo lustro il versante nordorientale, meno vitato, ma più fresco.

Aziende che fanno parte del Consorzio: 39
Associazione Produttori: L’Unione dei Viticoltori di Panzano in Chianti
Membri: 22
L’Unione dei Viticoltori di Panzano in Chianti è attiva dal 1994. Nacque con l’idea di riportare in vita una festa che si teneva negli anni ’50 nel piccolo borgo del comune di Greve. Una festa che si chiamava Vino al Vino e metteva quelle che già allora erano aziende di un certo blasone, accanto a piccoli e misconosciuti produttori. Così facendo quel momento di festa era anche occasione per assaggi reciproci, scambi, occasioni di visibilità. Un’idea semplice e vincente. Se oggi Panzano è una zona che merita a pieno titolo la dignità di una menzione speciale in etichetta, è soprattutto per il lavoro meritorio di quell’associazione di viticoltori. Non solo, ma le sfide poste dai cambiamenti climatici si affrontano meglio insieme, condividendo competenze, soluzioni e nuove strade… e tra questi assaggi fatti alla CCC2023 qualcosa di interessante, in questo senso, secondo me, c’è già.

Vini e aziende da segnalare
Il CC2019 di Vecchie Terre di Montefili ha svettato per intensità ed equilibrio, ma anche i CC2020 di Vallone di Cecione e Le Cinciole hanno mostrato una finezza sorprendente. Se gli effetti del climate change pongono domande, qua ci sono potenziali risposte di grande prospettiva.

San Casciano 

Siamo all’estremo nord della denominazione, ma come abbiamo visto nord non significa una zona più fredda, anzi. Il territorio della UGA sta tra la valle del fiume Greve e quella del fiume Pesa, su altitudini medie più basse rispetto al cuore del Chianti Classico e su pendii più dolci.

San Casciano

“Il territorio della UGA di San Casciano può essere visto – in larga parte – come un vasto altopiano alluvionale solcato da numerose valli, spesso profonde, la cui parte sommitale si colloca con regolarità attorno ai 300 metri sul livello del mare” [5]. L’andamento dei due fiumi, più lineare quello della Pesa, più irregolare e frastagliato quello della Greve, sembra indicare che terreni più morbidi si trovano sul lato occidentale e più duri sul lato orientale. Altra nota è che nella parte sud della UGA il territorio inizia ad alzarsi a quote leggermente più alte e il terreno registra la presenza anche di blocchi di alberese. C’è tuttavia una vaga coerenza di territorio, le vigne sono collocate in maniera diffusa su questo altopiano, senza seguire particolari andamenti ricorrenti. C’è quindi spazio per un lavoro di collegamento stilistico che è appena iniziato. Anche in questo caso è opportuno segnalare che qua le estati sempre più calde sono particolarmente sfidanti e qualche vino che ne ha fatto le spese è capitato di assaggiarlo.

Aziende che fanno parte del Consorzio: 46
Associazione Produttori:  San Casciano Classico
Membri: 28
I viticoltori della zona, riuniti nell’associazione San Casciano Classico hanno iniziato da poco a lavorare insieme, ma sono già partiti col piedi giusto, organizzando una giornata con Alessandro Masnaghetti di cui io e Andrea Gori abbiamo dato conto in un articolo che consiglio a chi vuole approfondire la conoscenza di questo territorio.
Il tratto comune che ho trovato nei vini di San Casciano è il ricorrere di un sentore agrumato, di arancia (rossa) se dovessi dire, a tratti più fresco a tratti fin troppo dolce. Credo che la prima versione di questo carattere sia quella da privilegiare.

Vini e aziende da segnalare
Ho scelto i vini di due aziende che si stanno spendendo molto, insieme a Villa Le Corti di Duccio Corsini, per dare corpo al lavoro dell’associazione San Casciano Classico. Cigliano Di Sopra con un CC2021 dalla bella trama rossa ed una bella sapidità (che Matteo Vaccari, giovanissimo e sorridente membro del team di Cigliano mi segnala fra i caratteri ricorrenti dei vini di San Casciano) e Luiano con il CC2021 con un 5% di merlot e un 5% di cabernet Sauvignon che lo scuriscono oltre quel che meriterebbe il sangiovese aziendale.

Greve

Greve è un comune dal territorio assai vasto, al cui interno ricadono ben 4 UGA: Greve, Montefioralle, Lamole e Panzano, che abbiamo già visto. Qui la faccenda si complica un poco e conviene provvedere subito a definire rapidamente Lamole e Montefioralle.

Greve + Panzano, Montefioralle, Lamole UGA

Lamole è un’area dall’enorme potenziale espressivo. È una zona piccola, coerente geologicamente, con esposizione quasi interamente a ovest, con vigneti che stanno fra le altitudini medie più elevate del Chianti Classico. Se il tono floreale di Castellina è tipico solo di una parte dei vini della zona, qua è un marchio davvero distintivo. Ci sono solo 8 aziende che ricadono in questa UGA e tanto lavoro da fare, ma la prospettiva c’è tutta. Per ora dell’Associazione Viticoltori di Lamole non si trovano grandi tracce online. Tra le varie aziende segnalo Fattoria di Castello di Lamole  di Paolo Socci.

Montefioralle è un’altra UGA molto piccola, che conta 15 aziende. Siamo sulla riva sinistra del fiume Greve e per una spiegazione di cosa questo significhi rimando al video qua sotto (merito ad Andrea Gori di averlo registrato e reso disponibile online), in cui Sebastiano Capponi illustra il territorio e la sua storia con la consueta precisione e competenza. Qua confesso di non essere capace di individuare un tratto comune netto quanto quello di Lamole, ma in questo caso l’Associazione dei Viticoltori di Montefioralle ha una presenza ed un’attività molto più vivace di quella dei colleghi di Lamole. Al riguardo credo che la segnalazione migliore che si possa fare è quella del lavoro che Aldo Fiordelli ha fatto proprio per i Viticoltori di Montefioralle, un lavoro di grande spessore e precisione che merita davvero di essere portato ad esempio. Tra le varie aziende segnalo infine Villa Calcinaia della famiglia Capponi.

Quel che rimane di Greve è un territorio di non facilissima lettura. Abbiamo visto sopra (guardate il video se non lo avete ancora fatto) la divisione fra riva destra e riva sinistra del fiume Greve che segna un primo spartiacque, abbiamo le zone più alte che stanno nella fascia orientale e salgono lungo i fianchi dei Monti del Chianti e abbiamo poi un secondo versante, con quote meno elevate, a ovest del paese di Greve. Infine ci sono i due corni nord del territorio comunale, quello occidentale verso Strada in Chianti e quello orientale verso San Polo, con scarsa presenza di vigne ed una grande presenza di macigno. Per dirla veloce: questo territorio può essere tutto e il suo contrario, quel che è certo è che Greve stata più generosa con le proprie eccellenze – ieri Panzano, oggi e domani Lamole – che con ciò che del proprio territorio rimaneva. Forse oggi è il caso di concentrarsi su di sé. Ci sono aziende i cui vini sono un po’ stanchi e poco brillanti, questo va detto, ma ci sono anche novità estremamente interessanti.

Vini e aziende da segnalare
Non è una novità Querciabella, ma vale la pena rammentare anche questo tipo di eccellenze che sono sul territorio grevigiano. Mentre tra le novità ci sono Ottomani e in particolare l’azienda Terreno, che alla Collection di quest’anno presentava un CC2020 molto interessante: siamo a destra della Greve e su terreni sabbiosi. Bel naso, pieno, profumato, ricco. In bocca invece è un vino fine, corpo esile, tannino morbido, finale un po’ scorbutico, ma nel complesso vino di bella fattura ed eleganza. 

San Donato

Con qualche approssimazione, ma ho tracciato il territorio dell’unica UGA che mette insieme parte del territorio di due comuni diversi: Barberino Tavarnelle e Poggibonsi. Per dare una lettura semplificata del territorio l’ho diviso in 3 zone.

San Donato in Poggio

La prima è la zona a nord della Pesa. Il territorio ha punti molto bassi, come ad esempio i 150 m s.l.m. nella zona della Sambuca, una striscia di zona industriale prossima al raccordo autostradale Firenze-Siena, dove è da qualche lustro la sede del Consorzio del Chianti Classico). Ma, da lì le colline si innalzano prima dolcemente e poi repentinamente sia verso ovest che verso nord e i punti dove si concentrano le vigne, soprattutto quelle di Badia a Passignano, sono su una discreta elevazione media (tra i 350 e i 400 mlsm) . Inoltre non si può trascurare che proprio qua, a Bargino, Antinori ha costruito la propria cantina-sede operativa-showroom che ogni anno attrae migliaia e migliaia di visitatori.
La seconda è la zona centrale, con vigne che si concentrano intorno al paese di San Donato in Poggio, ed anche qui siamo su altitudini che stanno fra i 3 e i 400 m s.l.m.. I terreni sono principalmente quelli di Alberese e forse un altro punto da tenere presente è lo spartiacque segnato dal corso del raccordo Firenze Siena. Il grosso del territorio della UGA si trova infatti a est di questa strada, mentre il ritaglio a ovest, nella zona di Cerbaia, è prossima a quella dove si trovano grandi produttori di sfuso (un capitolo a parte meriterà l’analisi di questo aspetto), ma anche aziende di presente e prospettiva assai interessante come Le Masse (alla Collection ho assaggiato un CC2019 davvero ben fatto).
La terza zona è quella in cui le altezze iniziano a degradare per scendere fino ai 250 m circa s.l.m. nella zona di Monsanto. Riguardo al terreno, per citare ancora Masnaghetti, a parte alcune zone dove si trova ancora Alberese “tutto il resto è appannaggio della Pietraforte e della formazione di Sillano (argilliti e calcari ndr), fatta eccezione per alcune argilliti scistose e per una vasta area di sabbie marine proprio in corrispondenza del borgo di Monsanto”. Nonostante sia una zona più bassa (anche se Olena e Isole stanno fra i 350 e i 400 m s.l.m.) e piuttosto calda, ha un’ottima ventilazione, dato che si affaccia su vallate aperte. Non così ventilata da ricevere le brezze marine [6], ma certo in grado di ricevere un refrigerio maggiore di altre zone della denominazione con altezze comparabili.
Quel che ricorre in tutti i vini di questa UGA è una pienezza di frutto che vale come regola abbastanza generale, qualche tono d’arancia e nelle versioni più felici un corpo che riesce a non essere pesante.

Aziende che fanno parte del Consorzio: 28
Associazione Produttori: Associazione dei Viticoltori di San Donato in Poggio
Membri: 19
Questa è la UGA dove si sono trovano due aziende con un lignaggio che ha pochi pari in tutto il Chianti Classico. Quando abbiamo giocato alla prima IntravinoCup, dedicata al Chianti Classico, a ricordarcelo siete stati proprio voi lettori di Intravino [7]. Queste due aziende sono Castello di Monsanto e Isole e Olena ed entrambe si sono messe a disposizione del lavoro dell’Associazione dei Viticoltori di San Donato in Poggio, nata nel 2018. Il fatto è che – come i lettori di Intravino ben sanno – Isole e Olena è stata recentemente acquistata da una holding francese del lusso e questo non è un particolare da poco. Molto sta a capire se la nuova proprietà di Isole e Olena avrà la saggezza di cogliere quanto sia decisivo il lavoro di squadra per far crescere il nome di un territorio. Il rischio, altrimenti, è quello che San Donato rimanga una zona con due eccellenze assolute e un gruppo di cantine che seguono a distanza più o meno breve. C’è poi il ruolo di Antinori, che appartiene ufficialmente a questa UGA, che potrebbe essere un’altra variabile importante qualora intendesse giocare la partita di San Donato.
Insomma, qua più che mai – questo il mio parere – ci sono una serie di incognite legate ancora una volta al fattore umano.

Vini e aziende da segnalare
Qua rischierei di essere noioso facendo nomi che ho già fatto e che già conoscete, ma insomma Monsanto e Isole e Olena, anche stavolta…

Castelnuovo Berardenga

Il territorio comunale (o almeno parte di quel territorio, dato che appartiene al Chianti Classico solo una parte di Castelnuovo Berardenga) è diviso fra due UGA. Se guardate le cartine qua sotto sappiate che la parte alla vostra sinistra è quella della UGA di Vagliagli, mentre quella a destra è la UGA di Castelnuovo Berardenga. Siamo all’estremo sud della denominazione con alcune peculiarità geologiche interessanti e con vigne in zone tra le più basse del Chianti Classico.

 

 

Mappa geologica di Castelnuovo Berardenga: da classicoberardenga.it

 

La linea rancione spessa indica il territorio comunale di C. Berardenga, da cui ho ritagliato in rosso la zona appartenente alla UGA omonima

Le due cartine qua sopra servono a illustrare rapidamente che in questo territorio altezze diverse corrispondono quasi precisamente a terreni diversi. La prima è la cartina geologica delle due UGA. Se volete andare nel dettaglio vi segnalo che:
. in azzurro trovate segnati depositi sabbioso ghiaiosi di origine alluvionale
. il giallo è quello di quel finto tufo di cui dicevamo in apertura
. in grigio sono segnati depositi argillosi
. in arancione rocce prevalentemente arenacee
. il verde è quello di rocce calcaree
. il rosa quello di rocce argillitiche
Se tuttavia dobbiamo farla un po’ più breve e semplice le cose stanno più o meno così: zone alte (450m e oltre)=macigno / zone di media altitudine (450-300m)=Alberese o formazioni di Sillano (argilliti e calcari) / zone basse=argilla e sabbie plioceniche. Anche qua, come per San Donato, San Casciano e la parte bassa di Castellina, sono le temperature medie più alte di altre zone a segnare un profilo comune nei vini di Castelnuovo Berardenga (inteso come comune e non come UGA), il che però non significa necessariamente vini meno eleganti. Certo con le estati degli ultimi anni i problemi di gestire picchi di calore e temperature medie molto alte si pone, ma c’è modo di riuscirci. Se qualcuno avesse dei dubbi in proposito, basterebbe un nome a fugarli tutti: Castell’in Villa (e se non bastasse, c’è pure San Giusto a Rentennano che ricade sotto Gaiole, ma è lì a un tiro di schioppo)

L’Associazione Classico Berardenga, Viticoltori di Castelnuovo Berardenga, che si è spesa con una bella serie di iniziative negli scorsi anni, è un’associazione i cui membri appartengono tanto a quella che oggi è la UGA di Vagliagli, quanto a quella che oggi è la UGA di Castelnuovo. Rimane quindi da capire se l’idea è di caratterizzare le singole UGA oppure tenere per buono il comune di riferimento e spingere per quello. Questo è un caso in cui forse si sarebbe potuto rinunciare ad un po’ di coerenza di territorio, per promuovere quella della cooperazione tra aziende.

Vini e aziende da segnalare
Qua mi sono limitato a pochissimi assaggi. Confesso di aver saltato Castell’in Villa, che per quanto mi riguarda è storicamente IL Chianti Classico di stile intramontabile (so di non dire niente di sconvolgente). Mi permetto solo di segnalare che per colpa di un’amicizia sincera mi capita di bere con buona regolarità i vini della “nuova” Dievole e credo valga la pena tenere d’occhio il corso che questi prenderanno nei prossimi anni.

In conclusione

Il Chianti Classico è stato per me casa per tanti anni (e c’ho finito anche una macchina e un furgone per quelle strade). Oggi è forse la zona più cool del vino italiano. Spero che questa risorsa gratuita possa essere utile a farlo conoscere ancora un po’ di più.

In ultimo un grazie a Nelson Pari, Martin Rance e Matteo Fabbri, senza i loro consigli questo report sarebbe stato molto peggiore di così.

_________________________

[1] I cru di Enogea – Chianti Classico
[2] Consiglio in questo caso di leggere un contributo di una persona che mi è particolarmente cara, in un’intervista fattagli da Andrea Cappelli per la rivista Millevigne.
[3] A tal fine la Congregazione, organismo istituito ad hoc, doveva vigilare affinché i vini “che sono commessi per navigare, siano muniti alla spedizione con la maggior sicurezza per la qualità loro, e tutto per ovviare alle fraudi”.
[4] Per chi volesse approfondire il consiglio è di recuperare questo articolo e soprattutto il video che Andrea Gori ha fatto dell’intervento di Alessandro Masnaghetti in occasione di un incontro organizzato dai viticoltori di San Casciano
[5] “UGA” le mappe di Enogea, di Alessandro Masnaghetti
[6] Guardate una cartina e valutate voi se la cosa è plausibile, ma del resto si dice che pure Montalcino sia rinfrescata da venti marini … e a questo punto vale tutto!
[7] Qui trovate tutti i link di quella sfida: SedicesimiOttaviQuarti SemifinaleFinaleVincitore

Red Obsession, vedere subito

Credo lo abbiano visto in pochi, ha ormai dieci anni sulle spalle (2013) ma è un bel documento sui vini e la retorica di Bordeaux oggi, con interventi autorevoli e la voce di Russell Crowe.

Ho ritrovato per puro caso Red Obsession su YouTube e non so per quanto ci rimarrà quindi non c’è altra cosa da fare che trovare 80 minuti liberi, mettere i sottotitoli e premere Play.

C’è un po’ di tutto: storia, atmosfera rarefatta, primeur, rockstar della critica internazionale, prezzi da urlo 2009-2010, occidentalizzazione dei consumi, civilizzazione e anche sex-toys accanto a una collezione di bottiglie da 60 milioni di dollari.

Basta parole, vedere subito.

Chiaretto di Bardolino | Anteprima 2023 del vino rosa più importante d’Italia

1000 ettari di vigneto, 100 produttori e 10 milioni di bottiglie annue fanno del Chiaretto di Bardolino il vino rosa più importante d’Italia. Sulla sponda veronese del Lago di Garda ho avuto l’opportunità di tuffarmi nell’anteprima 2023 con maschera e pinne fornite dal Consorzio di Tutela Chiaretto e del Bardolino, e l’impeccabile supporto logistico di Studio Cru.

Riassunto delle puntate precedenti
C’è stato un tempo in cui il Chiaretto era considerato soltanto un sottoprodotto del Bardolino. Veniva infatti ottenuto attraverso il prelievo di mosto (salasso) dalle vasche destinate al vino rosso per aumentarne la concentrazione per effetto dell’aumento del rapporto bucce/succo. Oggi la vinificazione in rosa esige la selezione di uve espressamente dedicate che vengono sottoposte a macerazione prefermentativa di alcune ore a bassa temperatura per l’estrazione di profumi e colore. La fermentazione si innesca a posteriori previa separazione del mosto dalle bucce. Il nuovo disciplinare del Chiaretto di Bardolino prevede l’utilizzo obbligatorio di due sole cultivar: la corvina veronese (fino a un massimo del 95%) e la rondinella (con un minimo del 5%). Ne consegue che l’aggiunta di altre varietà autoctone tradizionali è consentita ma facoltativa. La vinificazione avviene di norma in acciaio ma non manca chi preferisce le vasche in cemento vetrificato. Di recente alcune cantine hanno introdotto l’uso dell’anfora nella fase di affinamento che precede l’imbottigliamento.

La svolta della Rosé Revolution: meno colore, più tenuta nel tempo
Sebbene qui il vinum clarum si producesse già in epoca romana, è solo da un decennio che il concetto di qualità si è radicato nel disciplinare grazie a un profondo processo di revisione. Ricordo il mio scetticismo all’uscita dell’annata 2014, quella della cosiddetta Rosé Revolution: il colore rosa evanescente non mi comunicava alcuna gioia; quei vini scheletrici, citrini e salati, non mi entusiasmavano affatto. Oggi è spiazzante dover riconoscere quell’errore di valutazione. Ho nel bicchiere, una volta di più, la versione 2014 (ora in brillante veste dorata) di Poggio delle Grazie che sorprende per la fragile complessità, con gli agrumi canditi e il sale perfettamente integrati nella lunga coda sapida e speziata. Ancora meglio il 2015 di Tenuta La Presa, sfiorato da un’idea di ossidazione che dona un supplementare tocco di fascino.

Il momento di vendere e il momento di bere (non coincidono)
Il Chiaretto per consuetudine viene consumato nell’estate successiva alla vendemmia, in genere come aperitivo. Questo è ciò che reclama il mercato. “A dicembre riceviamo già richieste per la nuova annata non ancora imbottigliata”, conferma Franco Cristoforetti, presidente del Consorzio. La domanda incalzante fa il paio con la necessità di far cassa delle aziende. Peccato, perché il Chiaretto post-revolution raggiunge la maturità con almeno un paio d’anni sulle spalle, toccando il suo vertice qualitativo a 4-5 anni di età. Educare l’intera filiera a questa consapevolezza alla lunga potrebbe aiutare a riposizionare il prodotto più in alto nelle gerarchie del mercato. L’attuale fascia di prezzo consente grande competitività soprattutto all’estero (60% delle vendite totali) ma non libera i produttori dalle preoccupazioni economiche.

L’annata 2022
L’irrigazione d’emergenza, divenuta ormai prassi, nel 2022 ha letteralmente salvato il raccolto dalla siccità e dalle temperature estive estreme. Il cambiamento climatico sempre più aggressivo ha portato ad anticipare la vendemmia di ben 8 giorni rispetto alla media degli ultimi anni. C’è chi benedice i vecchi impianti a pergola, chi pensa di tornarci. Con tali premesse mi sarei atteso vini carichi e alcolici ma così non è stato. Le piante in forte stress idrico hanno dato priorità alla sopravvivenza invece che allo sviluppo fruttifero per cui la maturazione è stata lenta e complicata. Nel calice ho ritrovato vini mediamente buoni ma con una certa standardizzazione organolettica attribuibile non tanto al terroir (non ancora) quanto allo stadio evolutivo (imbottigliamenti recenti o campioni da vasca) e forse all’utilizzo di lieviti selezionati. Alla cieca ho selezionato il Rodòn – Le Fraghe (la mia comfort zone), il 30 Vendemmie – Le Tende (buon anniversario!), il Corderosa – Le Vigne di San Pietro (una lieta sorpresa, almeno per me) il Keya – Guerrieri Rizzardi (il posto delle fragole) e il Rosa dei Casaretti (sulla torbida via salata), ovvero gli esempi che sembrano promettere, per motivi differenti, intriganti sviluppi.

Le altre annate
Non sono mancate incursioni tra le annate pregresse ed è proprio qui che ho raccolto le soddisfazioni maggiori.

Il Barbagliante 2021 di Gentili è il più originale tra tutti i vini degustati. Il colore è davvero bello, più acceso rispetto ai vicini di calice. Gli aromi di agrumi e di ciliegia selvatica sono veicolati da uno sbuffo di volatile perfettamente utile allo scopo. In bocca è freschissimo con una sapidità che resta a lungo sulle papille. Passato in anfora, è uno dei pochi a mantenere nell’uvaggio una fiera e consistente percentuale di molinara, varietà ovunque in via di abbandono.
La vendemmia 2021 è considerata dai vignaioli tra le più interessanti degli ultimi anni e trovo conferma nella piacevolissima trama tattile del inAnfora – Zeni 1870. Che sia proprio questo lo strumento più adatto alla maturazione del chiaretto? In effetti alcuni produttori confessano una predilezione per i vasi vinari dell’azienda trentina Tava, tanto da consigliarmi vivamente una visita alla sede di Mori, non molto distante dal lago.
Il mio premio per il miglior assaggio va al Traccia di Rosa 2020 di Matilde Poggi (Le Fraghe) dal bel colore oro con riflessi aranciati appena percettibili (il nome non è casuale). Oltre alle classiche note agrumate, uvafragola e miele appaiono e scompaiono in un sorso che è al contempo vibrante e di carezzevole suadenza.
Merita una menzione il Chiaretto 2019 di Giovanna Tantini, da uve raccolte in successivi passaggi e vinificate separatamente per esaltare le caratteristiche proprie di ogni varietà utilizzata. Il risultato di questo maniacale lavoro di selezione e assemblaggio è di una classicità che non lascia dubbi. Sì, annata 2019 oggi al top!


Il confronto internazionale
Didattica e illuminante la masterclass col Chiaretto a confronto coi rosati di Mosella, Rioja e Provenza, rigorosamente serviti alla cieca. Se il vitigno (pinot nero) e lo stile (acidità e residuo zuccherino) hanno reso semplice l’individuazione dei vini tedeschi, le differenze sono apparse più sfumate nel confronto con la Rioja fino quasi a scomparire nella batteria con la Provenza (complice un’annata 2022 ancora acerba). La degustazione comparata intendeva suggerire che un buon Chiaretto, oltre a essere riconoscibile, non teme l’accostamento con vini di maggior lignaggio come il Mosel Pinot Noir Rosé Haus Klosterberg 2021 di Markus Molitor (secondo Robert Parker uno dei migliori rosè tedeschi degli ultimi vent’anni) o il Côtes de Provence Chateau Peyrassol, venduto al doppio del prezzo medio di un vino rosa del Garda. Obiettivo sostanzialmente raggiunto assieme alla conferma che il terroir si esprime pienamente solo dopo un ragionevole periodo di affinamento in bottiglia.

Charmat vs metodo classico
La versione spumantizzata rappresenta una nicchia all’interno della denominazione. Il Consorzio pare orientato a puntare sui prodotti da metodo Charmat, scelta che non condivido per il semplice fatto che non riesco a coglierne tipicità o peculiarità. Chiedo scusa, non è la mia tazza di tè. Tra i 22 spumanti in assaggio prendo atto della netta superiorità, per tensione e complessità, del Brut 2018 di Costadoro e del Dosaggio Zero 2019 Gentili, entrambi (guarda caso) da metodo classico. Tra le versioni in autoclave, l’unico a convincermi è il Brut di Raval, forte di un’esplosiva fragranza aromatica. Piuttosto, fuori da questo contesto, ho memoria di riuscitissime rifermentazioni in bottiglia senza sboccatura di Poggio delle Grazie e Casaretti, perché non dar voce a questa tipologia?

Conclusioni
Il Chiaretto di Bardolino non conosce crisi e chiude il 2022 con una crescita globale del 3%. A quasi dieci anni dalla Rosé Revolution i risultati sono palpabili in termini di vendite, qualità e credibilità. Su questa solida base, alcune considerazioni sparse.

Un plauso alle aziende che hanno deciso di diversificare l’offerta aggiungendo prodotti espressamente concepiti per essere messi in commercio dopo un affinamento più lungo (come il Gaudenzia di Villa Cordevigo) investendo per un futuro orientato all’alta qualità.
Gli esempi virtuosi da fermentazione senza aggiunta di lieviti selezionati dimostrano che si possono creare vini rosa più profondi, originali e con uno spettro aromatico più ampio e avvincente, senza incappare nei tanto temuti difetti.
Il biologico fa bene all’ambiente e, come emerge dagli assaggi, fa bene anche al vino. A quando un Consorzio 100% BIO? 

Gli esperimenti di affinamento in anfora stanno fornendo risposte molto interessanti. Non sarà tradizione, ma se funziona… perché no?

Social Intravino | Cascina Clarabella è una storia da conoscere

Conosco da anni i vini di Cascina Clarabella e mi piacciono i loro Franciacorta, devo però sempre costringermi a fare la tara alla naturale simpatia che un progetto come il loro suscita. Sì, perché non si può non guardare con ammirazione al mondo che sta dietro a questa realtà, la cui storia ho deciso di farmi raccontare andando finalmente a trovarli in cantina.

Incontro Aldo Papetti, che della cooperativa sociale Cascina Clarabella è vicepresidente, enotecnico, deus ex machina con 20 anni di lavoro qui, dopo essersi fatto le ossa a Costaripa, la cantina della famiglia Vezzola: “Più che farmi le ossa, Mattia me le ha rotte!”, esordisce scherzando, ma facendomi anche intuire che qualcosina sul metodo classico ha imparato dall’ex enologo di Bellavista.

Tutto ha inizio alla fine degli anni ’80, quando i dipendenti dell’azienda ospedaliera locale che gestisce tre centri psicosociali si rendono conto che ai loro pazienti, fuori dalle strutture, mancavano un tetto, un lavoro e la socialità ad esso collegata; fondano così una prima cooperativa che si occupa di verde pubblico, poi aprono un orto e una serra, per insediarsi nel 2002 a Cortefranca, nell’attuale cascina allora rudere.

L’ettaro e mezzo di vigneto circostante viene subito coltivato in biologico, seconda azienda franciacortina dopo la capostipite Barone Pizzini, a cui inizialmente si prevedeva di conferire le uve. Aldo arriva nel 2004: “Abbiamo imbottigliato da noi la prima vendemmia nel 2005; 2500 bottiglie, ma promettevano bene”. Oggi gli ettari vitati sono arrivati a 11, esclusivamente pinot nero e chardonnay, sparsi per tutta la Franciacorta, da Rodengo Saiano al caldissimo Montorfano, dove nelle crepe dei muri cresce il cappero e si vendemmia ai primi di agosto; “molta fatica a balzare col trattore da una parcella all’altra, ma anche una buona garanzia di costanza per le cuvée; e poi si spera sempre che se dovesse arrivare la grandine, non colpisca un territorio così ampio”, sottolinea Aldo.

Aldo Papetti

Qui oggi lavorano 30 dipendenti, di cui la metà sono pazienti psichiatrici assunti regolarmente: “Per un malato psichiatrico è molto diverso – spiega Aldo – togliere erbacce da un’aiuola rispetto al vedere concretamente il frutto del proprio lavoro, in una bottiglia che poi viene venduta sugli scaffali di un negozio o sulla tavola di un ristorante”; inoltre negli edifici della cascina ci sono anche una comunità psichiatrica residenziale e un centro diurno, da cui arrivano regolarmente 8-10 ospiti che intraprendono percorsi riabilitativi lavorando nelle strutture della cooperativa.

Alla cantina si aggiungono un orto, un ristorante, un B&B con 12 appartamenti, 2 frantoi, uno di proprietà, l’altro in gestione: “è quello di Montisola – dice Aldo – il comune ci ha chiesto di occuparcene; è molto interessante, perché sull’isola c’è una buona cultura dell’olio e la qualità delle olive che ci conferiscono è generalmente ottima”. È invece in stand-by, dopo un paio di anni di attività, l’itticoltura e la lavorazione dei prodotti del lago d’Iseo: “i costi erano diventati poco sostenibili: avremmo dovuto far pagare un filetto di trota a peso d’oro; comunque impianti, celle e know-how rimangono, vedremo se riprendere in futuro”.
Torniamo ai vini: con una media di 70.000 bottiglie all’anno Clarabella esce con il Curtefranca bianco Cesare Cantù, che è uno chardonnay barricato; con i Franciacorta Brut e Satèn, che rappresentano il nerbo della produzione (rispettivamente 38.000 e 15.000 bottiglie); con un non dosato, Èssenza, con un altro non dosato millesimato, chiamato 180 in onore della legge Basaglia (e che per alcune partite rimane sui lieviti a oltranza e veste poi un’etichetta propria, in dialetto bresciano: Dés aign, dieci anni, appunto dal tempo passato sur lattes); con il rosè millesimato Annalisa Faifer, dedicato ad una storica socia della cooperativa, portata via da una leucemia fulminante.

A questo punto, considerando le finalità di Clarabella, non dovrebbe essere importante parlare del vino nel bicchiere, giusto? Invece no, trovo sia fondamentale sottolineare che qui non si fa beneficienza, ma efficienza, e che la qualità dei vini, nei miei assaggi negli anni, si è sempre rivelata alta e costante. Diversamente non si spiegherebbe il successo sul mercato, che però in questo uggioso pomeriggio invernale mi penalizza: quasi tutto esaurito, impossibile degustare in modo completo. Mi pare maleducato strappare alla linea di dégorgement in funzione una bottiglia di brut, così Aldo Papetti mi propone altre due bottiglie.

Franciacorta Non Dosato Èssenza (50% pn, 50% ch, 12,5°)
Sboccato da 15 giorni, al naso si riesce solo ad intuire la vena agrumata e il frutto croccante; dopo qualche minuto dal bicchiere escono anche i sentori floreali. In bocca è davvero accattivante ed equilibrato, secco, ma non tagliente, dal finale rinfrescante.

Franciacorta rosè 2019 Annalisa Faifer (100% pn, 12,5°)
Sboccato da poco più di un mese, impressiona per il contrasto tra il colore e il naso delicato da una parte, e la potenza dall’altra; fatico a credere che le basi non passino in legno, ma in effetti il sorso è strutturato, con una bella spalla, che però non va a discapito della (pericolosa) facilità di beva. Di questo vino annuso anche la base-vendemmia 2022; uve quasi cotte, colore molto più scuro… vendemmia problematica, Aldo non sa cosa potrà ricavarne.

Forse ho assaggiato poco, ma ho incontrato una storia bellissima.

[Foto bottiglie: Lucio Elio]

Tutto quello che c’è da sapere sui (grandi) ristoranti senza carta dei vini online

Ci ripenso da giorni come i cornuti ma non riesco a farmene una ragione. Sono finalmente riuscito a prenotare un posto che sogno da tempo, dove le stelle Michelin sono di casa, ho già pronto l’abito buono delle feste e non vedo l’ora di godermi l’esperienza ma c’è un problema: è impossibile consultare la carta dei vini del ristorante.

Non ve n’è traccia sul sito e alla esplicita richiesta dopo aver prenotato – fornendo nome cognome e pure i dati di fatturazione (quindi tutti gli elementi possibili e immaginabili per qualificarmi come ospite educato e senza precedenti penali) – mi è stato risposto che il ristorante non dispone della carta vini in formato digitale.

Ora, va bene tutto – ed effettivamente certi ristoranti farebbero pure bene a non pubblicare la propria carta dei vini – però l’assenza di carta digitale stona un po’. Nel 2023 diamo per assodato che tutti abbiano un file della carta quindi la motivazione deve essere altrove.

Di questo argomento parlammo già qualche mese fa con Stefano Senini nell’articolo Contro i (grandi) ristoranti senza carta dei vini online e vorrei tornare sull’argomento perché ho la sensazione che nessuna argomentazione di questa scelta abbia solide fondamenta. Ci può essere semmai una giustificazione, ma è parziale e viene meno quando a chiedere l’accesso alla carta dei vini è qualcuno che ha appena prenotato un tavolo. Odio stare mezz’ora con gli occhi su un libro per scegliere un vino tra migliaia di referenze, cosa che potrei fare con più calma, meglio e soprattutto con grandissimo godimento comodamente da casa.

Le ragioni di questa policy aziendale?

Potrebbero essere sostanzialmente di tre ordini: i prezzi e/o la discrezione e/o l’incapacità di aggiornare con frequenza.

Parto dall’ultima.
Prerogativa per una carta consultabile è che sia aggiornata con buona tempestività, non giornaliera, nemmeno settimanale, diciamo almeno quindicinale o mensile. Se però si rende necessario un passaggio col webmaster della situazione, il processo rallenta diventando più macchinoso e disincentivando la scelta. L’ottimo sono ovviamente quei ristoratori/sommelier che esplicitamente chiedono di poter modificare in autonomia la sezione relativa del sito aziendale. Partendo però sempre dal presupposto che una carta digitale in qualsiasi forma esista, e non potrebbe essere altrimenti.

Il secondo caso è quello di chi invece non gradisce che chiunque possa sfogliare la propria carta vini, anche se non strettamente interessato all’esperienza del ristorante. Non voglio far sapere i cavoli miei e cosa ho in cantina, con quali produttori lavoro e con quali no, quante annate sono presenti di Tizio e Caio eccetera. Quel vedo/non vedo che punta sull’effetto-sorpresa qui sulla bilancia pesa più del mostrare subito le proprie grazie e bisogna stare al gioco. Qualcuno ipotizza che non esporre tutti i vini sia anche un modo per non essere mira di malintenzionati ma insomma, non credo che un ladro decida chi svaligiare scaricandosi un pdf. Punto che si potrebbe ricollegare al successivo.

I prezzi. Specie nell’alta ristorazione, non è insolito che i vini abbiano un prezzo più importante rispetto all’acquisto in azienda o in enoteca (e vorrei ben vedere, visto lo smattimento che servire certi vini in certi bicchieri in certe strutture comporta). Potrebbe sembrare ovvio ma non lo è. Può anche farmi strano trovare a 90 un vino che in bottega trovo a 20, ma stare seduto su sedie super, servito e riverito con bicchieri top ha un suo costo e va pagato. Che non tutti lo capiscano è un dato di fatto così come è un dato di fatto che troppi clienti pensino di sapere come si manda avanti un ristorante senza avere la minima idea della struttura di costi, ricavi e profitti che ci sta dietro. Ma poter sbirciare i prezzi, quindi i ricarichi, potrebbe davvero essere un disincentivo grande a tal punto da privare chiunque del piacere di vedere che vini ci sono in carta e quali eventualmente sceglierei? In questa sottocategoria andrebbe collocato chi espone una carta dei vini senza prezzi, quindi facendo vedere cosa c’è in carta ma non a quale prezzo. Quantomeno posso già farmi una idea di cosa ordinerei, poi sul momento capirò se il prezzo è giusto (per me) oppure no.

Insomma, qual che sia il motivo me ne farò una ragione. Invece di friggere in attesa di sedermi avrei di gran lunga preferito sfogliare, sfogliare e poi sfogliare di nuovo la carta digitale, segnandomi una luuunga wishlist di bottiglie da stappare (di solito ne annoto da 10 a 20 per andare sul sicuro) per godere e sognare anche un po’. Sennò a che servono le stelle?

P.S.: per rifarsi un po’ gli occhi, la carta del tristellato Alain Ducasse at the Dorchester, gestita da Vincenzo Arnese, tornerà utilissima (e su due piedi farei il pairing Wine Icons a pagina 11).

P.P.S.: ho scoperto che un nostro affezionatissimo lettore è appena stato nel ristorante che ho prenotato. Mi ha fatto vedere cosa ha bevuto e a che prezzo e forse potrei aver capito la ragione dietro alla scelta, se vogliamo una quarta motivazione. Che potrebbe suonare più o meno così: “Siamo sempre pieni, sappiamo di avere vini splendidi a prezzi ottimi quindi chi verrà qui potrà scoprirli e goderseli. Ci dispiace per gli altri. Tornando qualche volta poi ci sarà modo di esplorare anche gli angoli più nascosti della carta”. Speriamo vada così.

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