Nicola Barbato è commercialista, fotografo per passione, collabora con Repubblica Torino, ha un suo blog (https://oldbastardmontrachet.wordpress.com/) e sa scrivere. Ci piace leggerlo qui su Intravino. [a. m.]
Da bevitore laico ringrazio di essere nato con la curiosità di assaggiare tutto senza preconcetti. Essere prevenuti è teoricamente sbagliato, ma visto che non abbiamo tempo eterno da passare su questo pianeta, i preconcetti possono essere utili. A volte, non sempre. Per il vino infatti no.
Ogni vino è (o dovrebbe essere) diverso dalla sua versione dell’anno precedente e allora io assaggio e riassaggio periodicamente anche bottiglie che in passato ho detestato, come quelle di un certo produttore del centro Italia alle quali però riconosco coerenza: le trovo non bevibili ogni singola volta. Non nomino il produttore non tanto per evitare ridicole querele o infantili insulti da parte sua, ma perché ho amici che vendono i suoi vini (e amici che li bevono, mannaggialloro).
Elaboro invece qualche considerazione sulla fiera alla quale sono stato domenica 12 novembre, Augusta, la “Santa” che prende il nome dall’antica denominazione di Torino. L’idea è quella di farne un appuntamento annuale con sedi alternate, Torino e Roma. Quindi, mi suggeriscono, l’anno prossimo a Roma dovrebbero ribattezzarla Augusto.
La cosa che va detta chiara, sempre, è che l’alcol fa male. Non importa se lo si assume con un vino prodotto in maniera convenzionale oppure no. La molecola è tossica per l’organismo. Di questo fatto noi bevitori, entro certi limiti, ce ne freghiamo, ché esiste anche la salute mentale e quella ci serve come e quanto quella fisica. L’importante è non credere mai a chi dice che il vino cosiddetto naturale sia sano mentre quello convenzionale no: fanno male entrambi, a livelli diversi. A me per esempio l’acetica, quando è troppa, buca lo stomaco e abrade le papille della lingua. Non sto scherzando, dopo ogni fiera passo almeno ventiquattr’ore filate con acidità di stomaco e lingua felpata nonostante l’amico pantoprazolo assunto al mattino. Voi no? Ma beati voi.
Facciamo un passo indietro nel tempo. Qualche anno fa Giulia Graglia, che al tempo distribuiva vini naturali (so bene che molti storceranno il naso per questo aggettivo: passatemi il termine, è per capirci), organizzò una fiera di vignaioli e la chiamò Torino Beve Bene. Alla prima edizione parteciparono praticamente solo produttori del suo catalogo ma già dall’anno successivo l’evento riuscì a coinvolgere altri distributori della città. Bisogna sapere che il distributore torinese, fatte le dovute eccezioni, è una specie particolare di distributore. Tendenzialmente solitario e schivo, non ama lavorare insieme ad altri suoi simili, temendo che costoro gli freghino il pane. Di Torino Beve Bene furono organizzate tre indimenticabili edizioni. Poi, nel 2020, ecco il Covid e ciao. Anche perché nessuno a Torino ebbe la forza o lo stimolo o l’iniziativa o le palle di raccogliere l’eredità di Giulia e di ricominciare. Un gran peccato.
E qui arriva Augusta, che però non è la stessa cosa. Intanto perché come ho detto non si svolgerà sempre a Torino. Ma anche perché il format è più simile a quello delle fiere dei vini naturali francesi. Do un’occhiata ai nomi in catalogo e rilevo che l’elenco dei presenti è piuttosto ambizioso, ospitando anche produttori le cui bottiglie qui da noi non sono così facili da trovare o, visti i prezzi, da assaggiare.
I prezzi, già. Quelli sono diventati un problema da quando il mercato ha creato i nuovi Vignaioli-Mito del naturale, esseri con il corpo metà umano e metà corno di letame, che hanno cominciato a vendere le loro bottiglie a prezzi con tre cifre. È il mercato, sì, o se preferite la globalizzazione, cosa che stona con l’ideologia che permea da sempre i movimenti di questi vini. Ma si sa, come diceva Vespasiano, l’imperatore che ti faceva pagare per usare i suoi omonimi cessi: pecunia non olet.
E torniamo alla fiera. Al Bunker, la sede prescelta quest’anno, c’è tantissimo spazio. Eppure c’è anche tantissima gente, decisamente troppa quando tutti i banchetti sono presi d’assalto da mandrie di bevitori infoiati. I peggiori sono di due tipologie: quelli, endemici, che allungano il bicchiere sopra la spalla di chi gli sta davanti e chiedono “mi dai un bianco?”, e quelli che una volta arrivato il loro turno piantano le tende sul banco con tanto di picchetti e si mettono a parlottare lentissssssimamente tra loro incuranti di chi, dietro, aspetta: senti questa nota di melanzana della Turingia? Ma no, guarda che è quella dei Carpazi orientali. E via con le domande al produttore sul tempo di macerazione, sui contenitori usati, su quanto è durata la vendemmia, sui tappi usati, sulla rava e sulla fava fritta della loro madre. Ma l’importante è stare calmi, siamo qui con animo lieto e il turno prima o poi arriva.
Non da Tony Bornard, che è inavvicinabile, non da Clos du Tue Boeuf, del quale non si arriva a vedere il banco, coperto com’è dalle schiene degli assalitori, non da Klinec che, ohibò, annunciato in pompa magna non è venuto, non da Recrue des Sens, alias Yann Durieux, che anche lui aveva evidentemente altro da fare. Come pure Strohmeier. C’è invece la folla e vabbè, so’ ragazzi, arrivati da tutta Italia e anche da oltre le Alpi. E infatti queste sono fiere per i giovani, noi anziani ci facciamo troppe domande. E beviamo meno di loro ché a stare in piedi mezz’ora in attesa di assaggiare ci viene male ai talloni e alle giunture e ci dobbiamo sedere. Per non dire della prostata.
Ezio Cerruti e Matteo Fabbri (Contesto Alimentare)
Ma prima di dire la cosa brutta e cattiva faccio una premessa (le mani avanti non le metto): mi sono divertito molto. Augusta è una fiera molto divertente organizzata da gente capace (Eventi3 Srl con la collaborazione di Gianluca Cannizzo e ActingOut Creative Agency). Ho incontrato tante persone che mi piacciono, rivisto amici che non vedo mai, fatto battute, scherzato, riso, abbracciato. È a questo che servono le fiere, più che a bere vino. Almeno a me, che senza l’aspetto umano della faccenda forse mai mi sarei appassionato quanto adesso sono: come ripeteva mia nonna, il vino è un surrogato. Di cosa ditemelo voi.
E allora? Il movimento dei vini naturali ha indubbiamente cambiato le carte in tavola sia nel gusto del vino che nella composizione anagrafica dei consumatori che nella varietà dell’offerta delle bottiglie. Lo ho sempre seguito con curiosità e pure con piacere, ho partecipato a molte fiere e ho comperato e bevuto molti vini cosiddetti naturali, rimanendo spesso tollerante su alcuni difetti che riscontravo (alcuni: non tutti). Ho scritto difetti e so che molti non li considerano tali. Eviterei di addentrarmi in sterili polemiche e dirò solo che anche un naso schiacciato e storto sulla giusta faccia può essere bellissimo. Però se hai anche le orecchie a sventola e i denti storti a qualcuno di sicuro non piacerai.
Gianluca Cannizzo e Giuseppe Amato (Valdisole)
Poi c’è la faccenda, primaria, del rispetto della natura. Un vino prodotto senza inquinare il terreno né avvelenare le piante con prodotti chimici spesso inutili è sempre da perseguire. Lo stesso dicasi per le pratiche di cantina: preferirò sempre chi lavora pulito. Ma continuare a pensare, nel 2023, che un minimo di solforosa in imbottigliamento sia il male assoluto è da uomini delle caverne. E lo stesso dicasi sul controllo delle temperature, sulla pulizia delle botti e in cantina, persino sull’utilizzo dei lieviti selezionati (se neutri), e su mille altri dettagli che sono, appunto, dettagli, quisquilie, pinzillacchere.
Il vino, comunque lo si intenda, bisogna saperlo fare. È un concetto banale, certo, ma va ribadito ogni giorno. Non basta decidere di mollare il lavoro in banca per andare a coltivare la vigna del nonno, abbandonata da anni, e schiacciare l’uva mezza marcia nella vasca da bagno aspettando inerti e sorridenti che le forze della natura compiano il miracolo. Qualche anno fa, dopo una fiera di vino naturale, scrissi che ero felice di constatare i miglioramenti qualitativi di tanti produttori che all’inizio della loro avventura mettevano in circolazione vini che parevano affinati in una tana di roditori.
Per cui, quando vedo che per qualcuno riparte la ricerca del vino estremo, di quello che ti brucia gola e stomaco però è naturale, che puzza di cane morto però è naturale, mi sembra di essere in un paradosso temporale, di rivivere un passato che credevo e speravo sepolto. Insieme al cane, pace all’anima sua. Augusta ha avuto molto successo e a Roma ne avrà ancora di più, visto il fermento che permea quella città in questo momento. Ma concentrarsi sui vini estremi (per essere gentili e non dirli scomposti o storti chiamiamoli così. Sono stati purtroppo la maggioranza di quelli assaggiati ma per fortuna mia c’era anche altro: ho bevuto molte cose buone) ne fa una festa più che una fiera, divertente eppure in un certo senso anacronistica. Un nostalgico tuffo nel passato che mostra ai giovani che si avvicinano al vino una approssimazione degli eventi vinicoli di vent’anni fa. Il che non toglie che per me valga la premessa fatta all’inizio: ad Augusta tornerò.
Il buon Ernesto Guevara prima di morire scrisse ai figli una lettera molto bella che ancora oggi è fonte di ispirazione. Vi invito a recuperarla, se non la conoscete, sono poche righe. In questa lettera si legge una frase fondamentale che ogni produttore di vino, specialmente se si ritiene naturale, dovrebbe mandare a memoria:
Studiate tanto e imparate a usare la tecnologia, che ci permette di dominare la natura.
Vedete? Questo è il motivo per il quale oggi convivono due generi di vignaioli naturali: quelli che hanno studiato e mettono in pratica il loro sapere in vigna e cantina, e quelli che di studiare non hanno nessuna voglia e che in cantina non fanno niente perché il vino si fa da solo. Ancora troppi. Questi ultimi devono fare ancora molta ma molta strada. O, meglio, devono ancora percorrere la strada che una ventina di anni fa, in Italia, è stata tracciata da altri e che ancora oggi ci fa parlare, tra i tanti, di Giovanna Morganti e di Giuseppe Rinaldi. La strada dei Cheguevaristi del vino.
Nicola Barbato