Quando qualcuno chiede a Guido Carlo Alleva, viticoltore di Tenuta Santa Caterina a Grazzano Badoglio, perché proprio lo chardonnay nel cuore del Monferrato, la sua seconda risposta è “perché piace a me, e tanto basta”. In effetti, basterebbe questo per passare direttamente alla degustazione, ma la prima risposta offre l’occasione per raccontare un po’ di storia, e vale la pena di partire da lì: “Lo chardonnay in Piemonte e nel Monferrato è vitigno tradizionale”.
Filippo Antonio Maria Asinari di San Marzano (Torino, 1767 – 1828) fu un generale e diplomatico italiano che ebbe cariche importantissime sia presso la Corte del Regno di Sardegna che presso il Primo Impero francese: fu ministro plenipotenziario al congresso di Vienna per il Regno di Sardegna, Ministro della guerra, Ministro degli esteri, e concluse la sua brillante carriera come Gran Ciambellano di Carlo Felice. Filippo Asinari non fu solo politico di spessore ma anche grande e appassionato viticoltore, e sfruttò i suoi incarichi in giro per l’Europa per intrecciare rapporti di collaborazione con produttori delle zone più rinomate.
Vi sono molti scritti dei primi anni del 1800 raccolti da Giuseppe Aldo di Ricaldone* che testimoniano da una parte l’interesse per le tecniche di coltivazione della vite e di vinificazione e dall’altra la sua continua ricerca di barbatelle delle varietà più disparate da mettere a dimora sulle colline del Monferrato, in particolare a Costigliole d’Asti (a due passi da San Marzano Oliveto) e a Lu Monferrato (in provincia di Alessandria).
Ecco qualche stralcio.
Nel 1807 il Marchese Filippo Asinari richiede informazioni all’abate Pina, a mezzo della contessa Balbi, per ottenere barbatelle di vigne dell’Hermitage, e notizie sul modo migliore per piantarle, e nel 1808 scrive al suo fattore Allisio una “memoria per il piantamento delle vigne dell’Hermitage”:
“In fine febbraio o principio di marzo arriveranno li piantini però senza radice.
Devono essere tenuti nell’acqua almeno 20 giorni od un mese prima di piantarli.
[…]
Sono bianche (presumibilmente marsanne e roussanne, ndr) e rosse (presumibilmente syrah, ndr) e si divideranno le qualità un tanto per sito.
[…]
Queste poi devono a suo tempo essere tenute bassissime con una broppa o due ed in Francia ogni ceppo non ha mai più di due corde corte portando al più 6 o 7 grappe”.
La curiosità di Filippo Asinari era davvero spiccata. L’elenco delle varietà di barbatelle che si faceva spedire da tutta Europa (da sommarsi a tutte le varietà autoctone piemontesi che ovviamente coltivava) è notevole; nel 1819, tra gennaio e maggio, Antonio Bressiano, Console Generale di S. M. il Re a Barcellona informa di aver inviato in Piemonte barbatelle di vino d’Alella, Malaga, Xeres, Alicante, Cadaque e Malvasia di Sitges, oltre a consigli pratici sui rispettivi metodi di coltivazione: “Desideroso di potere in qualche maniera coadiuvare il felice esito della coltivazione da V.E. propostasi ho scritto a questi diversi committenti de’ tralci perché mi dessero delle notizie circa il metodo di coltivare le rispettive loro vigne ed avendone avuti i relativi riscontri li accompagno a V.E. tradotti nel nostro idioma.”.
E nello stesso anno, un documento di Allisio elenca le barbatelle che saranno innestate tra Costigliole e Lu. Interessante notare come le piante provenienti dalla Borgogna abbiano un’origine precisa (e che origine!):
“Il fascio marcato N. C. contiene viti di Borgogna Rosso nominato Chambertin.
Il fascio marcato R contiene viti di Borgogna rosso nominato Romanet.
Il fascio marcato M contiene tralci viti di Borgogna Bianco nominato Montrachet.”
E ancora, nella nota dei tralci di vite innestati e piantati nella vigna da Lu:
“N. 5 un ballotto innestato nella seconda torna sulle viti vecchie, n. 2 filere, segnato M.M. Borgogna di Cassagna (più avanti chiamato Chassagna, ndr).”
Da allora, per più di due secoli, lo chardonnay non ha più lasciato il Piemonte, e se non possiamo certo definirlo un vitigno autoctono, l’appellativo “tradizionale” se l’è guadagnato di diritto.
Del resto, che lo chardonnay sia uno dei vitigni bianchi più diffusi (al fine della vinificazione) è cosa nota.
L’International Organisation of Vine and Wine (OIV) con una statistica del 2018 (è la più recente) racconta come tra i vitigni a bacca bianca lo chardonnay sia il terzo più coltivato al mondo, superato solo da airen e uva sultanina.
Se possiamo tranquillamente eliminare l’uva sultanina dalla nostra classifica in quanto coltivata perlopiù per essere essiccata, balza all’occhio la diversa distribuzione di airen e chardonnay nel mondo, seppure le superfici vitate siano simili (218.000 ha l’airen e 210.000 ha lo chardonnay):
©OIV
©OIV
E in Italia?
Due sono i dati interessanti: il primo è che lo chardonnay è al quinto posto tra i vitigni a bacca bianca maggiormente coltivati (sempre ad uso vinificazione). Prima di lui, glera e pinot grigio (in trend crescente), poi, con un distacco minimo, catarratto bianco comune e trebbiano toscano.
©OIV
Il secondo dato è che l’Italia è al terzo posto nel mondo (tra i 15 maggiori produttori) nella classifica che misura quanti diversi vitigni concorrano a formare il 60% del terreno vitato.
Riassumendo:
1. lo chardonnay è il secondo vitigno a bacca bianca più coltivato al mondo, ma il primo (di gran lunga) per importanza e diffusione
2. l’Italia è uno dei paesi al mondo con la più alta varietà di vitigni coltivati (e non da ora, basta rileggere quanto sperimentava già Filippo Asinari due secoli fa)
3. nonostante ciò lo chardonnay è ai primi posti tra i vitigni a bacca bianca coltivati in Italia
Torniamo finalmente a Grazzano Badoglio, a metà strada tra Casale Monferrato e Asti, dove Tenuta Santa Caterina ha da sempre un occhio di riguardo per lo chardonnay.
Nata come struttura difensiva ma già censita come Tenuta Agraria nel 1737, nel diciannovesimo secolo la proprietà contava circa 400 ettari coltivati (non solo a vite). Dopo un lungo periodo nel quale la tenuta fu quasi del tutto abbandonata a se stessa venne acquistata nei primi anni 2000 da Guido Carlo Alleva, di origini monferrine, per avviare un progetto di recupero dei vigneti e di accoglienza. Oggi, a distanza di qualche lustro, Tenuta Santa Caterina è diventata un riferimento nel Monferrato sia per il grignolino (è una delle cantine promotrici del progetto Monferace) sia per lo chardonnay, vera passione di Guido Carlo Alleva.
Il primo passo fu il recupero della biodiversità quasi azzerata a causa di coltivazioni intensive prima e di abbandono poi: l’indice che misura il bioma è quasi raddoppiato negli ultimi quindici anni, e il 2025 sarà la prima vendemmia certificata bio.
Ci racconta Guido come fin dall’inizio la volontà sia stata restituire alle colline attorno alla tenuta la fertilità non solo chimica ma anche di vita che mancava. È stato recuperato un laghetto e attorno ad esso sono ricomparse dopo anni le lucciole, e pratiche come il sovescio oltre a favorire la biodiversità hanno permesso di ridurre lo stress idrico anche nelle annate più siccitose come il 2021.
Quando hai la fortuna di poter iniziare un progetto vitivinicolo pressoché da zero hai un grosso vantaggio (che è anche una grossa responsabilità): puoi scegliere tutto da te, a cominciare dai cloni.
Sono una trentina quelli di chardonnay certificati in Borgogna. Di questi, probabilmente i più famosi sono il 76 e il 95, predominanti tra Montrachet e Meursault.
Accanto a questi due, Guido Carlo e gli enologi Luciana Biondo e Mario Ronco, dopo numerosi viaggi in Borgogna, hanno scelto di piantare il 10% del clone 809, detto musque: se la maggior parte dei cloni di chardonnay sono classificati come variazioni neutre del profilo centrale, con sottili differenze tra loro, il clone 809 condivide caratteristiche di aromaticità con l’uva moscato e risulta in genere leggermente più ricco di zuccheri.
Una caratteristica comune dei bianchi di Tenuta Santa Caterina, anch’essa derivante dall’essere partiti da una tela bianca, è che ogni vino proviene da un solo vigneto, fin dall’inizio destinato ad esso.
Monferrato Bianco Salidoro 2021. 75% chardonnay, 25% sauvignon blanc.
Dalla vigna Strada di Valpagna (300m slm) su suoli di origine marina. Il 10% circa dello chardonnay fermenta e affina per 9 mesi in barrique di rovere francese, il resto in acciaio.
Il clone di sauvignon scelto proviene dalla Loira ed è caratterizzato dall’aromaticità contenuta.
Il naso racconta di mela gialla, limone ed erbe aromatiche, tra la salvia e il timo con un accenno di zenzero e una vena sapida che si percepisce già avvicinando il bicchiere.
Di media struttura con belle sensazioni agrumate e un pizzico di aromaticità da sauvignon, è fresco e soprattutto sapido, ha una bella beva pulita e spensierata.
Semplice, preciso e solido.
Monferrato Bianco Silente delle marne 2017. 100% chardonnay.
Dal vigneto della Maddalena (3.00m slm) su marne e rocce sedimentarie con vene di calcare in superficie e argilla in profondità.
Per produrre questo vino vi sono due vendemmie, una anticipata e una a piena maturazione.
Affina 9 mesi in barrique di rovere francese con batonnage periodici.
Bel giallo dorato, naso ricco e intenso di fiori di sambuco e cenni di pesca bianca, poi salvia, miele e un pizzico di pepe lungo.
La struttura è importante, è un vino ricco, largo in bocca e di grande persistenza ma non “grasso”. Sebbene la freschezza non manchi (considerando anche che la 2017 fu annata calda) è la bella sapidità a spiccare e a dare equilibrio.
A sei anni dalla vendemmia ha ancora margini di miglioramento. Da mettere alla cieca per far fare bella figura al Monferrato!
Metodo classico GC 2019. 100% chardonnay. Dosaggio 3g/l. Sboccatura marzo 2023.
Dal vigneto della Maddalena (lo stesso del Silente delle marne).
L’idea di questo spumante nasce dalla doppia vendemmia del Silente delle marne; la prima vendemmia infatti mostrava quel che sembrava avere le caratteristiche di una buona base spumante. La curiosità di sperimentare ha fatto il resto.
L’affinamento sui lieviti è stato di 36 mesi, ma trattandosi di un’anteprima della prima annata non è escluso che in futuro si troveranno bottiglie con affinamenti più lunghi.
Naso soprattutto agrumato, di cedro in scorza e succo e con bei rimandi sapidi. La sboccatura avvenuta da nemmeno due mesi di sicuro non lo aiuta ad esprimersi in profondità, ma la finezza è già tutta lì.
La bollicina è finissima alla vista e in bocca.
Senza spigoli, sebbene dotato di freschezza e soprattutto di sapidità, ricorda l’aromaticità della cedrata. Bella beva e bell’equilibrio tra cremosità e sale ecco uno spumante che forse azzarderei con le ostriche.
Tre vini solidi e con un’idea precisa, che pur con i piedi ben piantati nel Monferrato guardano evidentemente più in là, come se volessero restituire a Filippo Asinari un po’ di quanto lui ha lasciato in queste terre.
* Giuseppe Aldo di Ricaldone, Il Marchese Filippo Asinari di San Marzano (1767 – 1828) viticultore a Costigliole d’Asti, Editore Il Comune di Costigliole d’Asti.