Siamo tutti drogati
Al netto delle dovute eccezioni, la nostra percezione della realtà è costantemente alterata dall’effetto della caffeina, il composto psicoattivo che provoca dipendenza nella maggior parte della popolazione mondiale. Matthew Walker, neuroscienziato e direttore del Center for Human Sleep Science dell’Università della California, afferma che il consumo di questa sostanza “rappresenta uno dei più lunghi e più vasti studi non controllati sulla droga mai condotti sulla specie umana”. Chissefrega, in fondo, se non consideriamo la dipendenza in senso morale o patologico.
Caffè progresso, alcol regresso
Secondo il dizionario Treccani, il termine caffè deriva dall’arabo qahwa, parola antica che indica tanto il vino quanto una generica bevanda eccitante, ed è proprio nel mondo islamico (dove l’alcol è bandito) che il cosiddetto “vino d’Arabia” prende piede e si diffonde nel corso del XV secolo. Quando, a metà del Seicento, sbarca in Europa (via Impero Ottomano) il suo effetto è dirompente. Lo storico Jules Michelet non ha dubbi su quale sia stato il vero carburante della Rivoluzione francese, come riporta in Histoire de France: “il caffè, liquore sobrio, potentemente cerebrale, che a differenza degli alcolici, accresce la chiarezza e la lucidità […] Buffon, Diderot e Rousseau videro nelle profondità della nera bevanda il futuro raggio dell’89”.
Nel Settecento, i Caffè sono i luoghi di ritrovo dove fermentano le idee e si innova la cultura. Nel 1764 a Milano, Pietro Verri fonda con un gruppo di intellettuali “Il Caffè”, periodico destinato a diventare il principale strumento di diffusione del pensiero illuminista in Italia. Scrive Michael Pollan nel suo ultimo e affascinante libro Piante che cambiano la mente: “Tè e caffè inaugurarono una trasformazione del clima mentale, acuendo menti che erano prima annebbiate dall’alcol e liberando le persone dai ritmi naturali del corpo e del sole, così da rendere possibili tipi del tutto nuovi di lavoro, e molto verosimilmente, anche nuovi tipi di pensiero”. Vien quasi da credere che prima della comparsa della caffeina gli europei fossero solo una masnada di bradipsichici alcolizzati… Frattanto il tempo vola, il mondo spinge forte sull’acceleratore e l’alcol, con l’avvento della Rivoluzione industriale, da fonte di calorie per i ceti meno abbienti, si trasforma in nemico della produttività in quanto responsabile di abbassare il livello d’attenzione, concentrazione e resistenza, inficiando velocità d’esecuzione e qualità del lavoro. La caffeina prende il sopravvento fino a diventare il vero volano del capitalismo. Ancora oggi, molte aziende lasciano che i lavoratori usufruiscano gratuitamente del caffè dai distributori automatici mentre nelle mense, per contro, la somministrazione di bevande alcoliche è inibita anche a chi, in caso di colpo di sonno, rischierebbe al massimo di sbattere il naso contro la tastiera del proprio laptop. Tante prove, apparentemente schiaccianti, portano a una sola conclusione: caffè progresso, alcol regresso.
L’altra faccia della medaglia
Seppure in difetto di argomentazioni decisive per ribaltare il verdetto, io e la mia amica sbronza avremmo qualcosa da ridire. Prima di tutto i nostri antenati se la sono cavata egregiamente anche senza caffeina. Il lume della ragione non s’accende di punto in bianco nel momento in cui l’essere umano sorseggia la sua prima tazza di caffè. Il pensiero occidentale si sviluppa con l’affermazione della civiltà mediterranea di matrice greco-romana del pane, dell’olio e del vino, e si preserva nei secoli cosiddetti bui anche grazie al lavoro di trascrizione e custodia dei monaci, supportati da razioni quotidiane d’alcol così massicce da apparirci oggi più suicide che irragionevoli. La rivoluzione di pensiero scaturita con l’Umanesimo e confluita nel Rinascimento, si realizza senza l’ausilio dei superpoteri della nera pozione magica, mentre nel mondo islamico la diffusione della caffeina segna l’inizio della decadenza e la fine di un periodo di egemonia culturale. Oltretutto, a proposito di civiltà e progresso, quella del caffè è anche una storia di schiavitù, colonialismo e sfruttamento. In totale sfregio agli ideali di “Liberté, Égalité et Fraternité”, i braccianti continuano a lavorare in condizioni difficilissime, sottopagati e spesso in palese violazione dei diritti umani. In ben 17 paesi produttori persiste il lavoro minorile, con un trend addirittura in crescita, secondo le stime dell’International Labour Organization (ILO).
Elogio dei principi psicoattivi
La sfida continua. I cinefili più incalliti avranno memoria dell’epico duello a colpi di bottiglie di vodka e brocche di caffè fra Matti Pellonpää e Mato Valtonen nel film Tatjana del regista finlandese Aki Kaurismaki. Ma in definitiva ha più senso procedere per analogie piuttosto che per contrapposizioni, magari limitandoci al confronto col nettare di Bacco. Gli scenari politici e culturali cambiano di continuo e così cambia il giudizio attribuito alle sostanze psicoattive e alle bevande che ne sono il veicolo. Il vino, per secoli alimento imprescindibile, è entrato stabilmente nella categoria dei beni voluttuari, con sempre più frequenti sconfinamenti nel comparto del lusso. Nemmeno il popolare espresso è immune a questa tendenza, tanto che le pregiate miscele di Kopi Luwak o Black Ivory possono raggiungere il prezzo di mille euro al chilo. Vino e caffè (aggiungiamoci anche il tè) condividono il culto del terroir e dei cru, i misteri delle fermentazioni e delle lavorazioni che portano alla creazione di prodotti unici e riconoscibili. Ma più di ogni altra cosa condividono le fasi della degustazione, il ricco vocabolario delle note descrittive, lo storytelling e i voli pindarici dei loro spericolati cantori, capaci di prodursi in ardite piroette filosofiche pur di giustificarne il consumo. Non è questa, in fondo, la prerogativa d’ogni bevanda in grado di alterare la coscienza?
Quel demonietto di Pollan offre la chiusa con un’onesta ammissione: “le arzigogolate strutture di significato che abbiamo eretto sopra a queste molecole psicoattive sono soltanto il modo in cui la cultura adorna il nostro desiderio di modificare la coscienza con le vesti sfarzose della metafora e dell’associazione”. Ecco, l’ha detto lui. La decrescita felice non passa per la formula “caffeina in settimana, alcol nel weekend” ma se ci è permesso e ce lo possiamo permettere, che sia vino o caffè (espressamente certificato Fairtrade quindi da filiera equosolidale), concediamoci di goderne, psicoattivi inclusi, senza troppi sensi di colpa.