Riprendo qui le fila di due diversi post. Il primo è quello scritto da Massimiliano Ferrari su numeri e scenari mondiali del mercato dei vini dealcolati o a basso contenuto alcolico. Il secondo quello dall’Istria e dal Concours Mondial de Bruxelles che ho scritto prima dell’estate. È infatti stato proprio in occasione del concorso della cui giuria faccio parte ormai da qualche anno che ho avuto la possibilità di assaggiare un certo numero di vini senz’alcol provenienti da un po’ tutto il mondo. Un’occasione che proprio in fase di assaggio, alla cieca, mi ha fatto riflettere su quanto sia necessario rivedere alcune delle nostre certezze per valutarli correttamente.
Una questione relativa proprio alla loro degustazione: quando si tratta di vino l’alcol gioca infatti un ruolo centrale nel suo equilibrio. Una questione che ha a che fare con il calore, certo, ma non solo. Come scrive Sandro Sangiorgi nel suo immancabile libro “L’invenzione della gioia” edito da Porthos Edizioni:
Dal punto di vista gusto-olfattivo, l’alcol funge da convoglio delle sensazioni odorose, potenziando l’emanazione dei profumi; all’interno del cavo orale, poi, partecipa insieme agli estratti e ai tannini (ove presenti) a tessere la trama del sapore. In quantità proporzionate, l’alcol conferisce una carezzevole morbidezza (…), rafforza la dolcezza e, in presenza di un’adeguata corposità, contribuisce alla sensazione di struttura e volume; un vino scarsamente alcolico sembra, infatti, sfuggente, freddo e acquoso.
Un vino dealcolato o a basso contenuto alcolico è un prodotto che è stato sottoposto a uno specifico processo il cui scopo è quello di sottrarre l’alcol, del tutto o in parte, dal vino. Diverse le tecniche a disposizione delle cantine, tutte piuttosto costose e quindi pressoché inaccessibili alle realtà più piccole: dall’osmosi inversa, la più diffusa, all’evaporazione sottovuoto e altre ancora. Tutte tecniche che possono tornare molto utili per abbassare di uno o due gradi una massa, per esempio: soltanto una piccola parte viene in questi casi infatti sottoposta a dealcolazione per poi essere aggiunta a quella principale, che risulterà quindi più “leggera” e senza eccessive variazioni dal punto di vista organolettico. Nel caso dei vini “alcol free” è invece l’intera massa a essere sottoposta a questi processi, con un impatto enorme sia dal punto di vista dei suoi aromi che soprattutto della sua struttura.
Ripensando a quanto assaggiato mi verrebbe da dire che c’è una discreta differenza in termini di equilibrio complessivo tra vini bianchi e vini rossi:
I primi, grazie al fondamentale ruolo dell’acidità, risultano tutto sommato abbastanza equilibrati, e in termini generali mi è sembrato che le freschezze bilancino a sufficienza le morbidezze del vino. L’assenza dell’alcol è sì evidente ma al tempo stesso mi sono sembrati vini non del tutto svuotati, con risultati in alcuni casi anche interessanti dal punto di vista organolettico.
I secondi, salvo rare eccezioni, scontano invece proprio la mancanza di freschezza, di quella sferzata capace di renderli più appuntiti. Togliere il calore dell’alcol si traduce in un crollo dell’impalcatura complessiva del vino, che risulta così tutto spostato su una morbidezza quasi innaturale. La stessa trama tannica è sì avvertibile ma al tempo stesso appare come non coesa, incapace di sostenere da sola la struttura del liquido, al palato.
In fase di assaggio, queste peculiarità fanno sì che la scala centesimale classica e la stessa scheda di degustazione risultino poco adatte alla valutazione di un vino di questo tipo: per usare termini cari alla maggiore associazione italiana, questioni come equilibrio, persistenza e armonia appaiono inevitabilmente appartenere a un panorama lontano, salvo eccezioni.
Personalmente ho provato a usare un approccio tanto banale quanto efficace: ne berrei un bicchiere? A volte sì.
[Foto cover: Botilia]