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7 Settembre 2023

Tre rosa di razza, tra pregiudizio e discriminazione

“Ricordo che le mie prime lezioni d’arte erano emozionanti, ma non ho mai capito quella matita color carne. Sono fatta di carne, ma non sono rosa. La mia pelle è marrone, eppure la gente diceva che ero nera. Avevo una gran confusione di colori nella mia testa”. (Angélica Dass)

Angélica Dass è un’artista brasiliana, ideatrice del progetto Humanae, per il quale ha fotografato i volti di 4.000 volontari associando a ogni ritratto, in post-produzione, uno sfondo dello stesso colore del viso (estrapolato da un particolare del naso) ed indicandone il relativo codice Pantone, standard internazionale per la catalogazione dei colori.

Il suo sorprendente archivio mostra con inequivocabile efficacia che anche individui agli antipodi geografici, frettolosamente etichettati da qualcuno come appartenenti a razze differenti, possono avere (e non per semplice eccezione) la pelle dello stesso colore. Humanae è un’opera di straordinaria potenza visiva che scardina gli stereotipi razziali spazzando via le nuvole del pregiudizio.

Non di rado, il colore rosa viene associato a discriminazione. In piccolo, anche il vino rosa è oggetto, quando non strumento, di luoghi comuni difficili da estirpare, a partire dalle aberranti campagne promozionali che ciclicamente ricorrono in occasione dell’8 marzo. Durante il resto dell’anno, il nostro s’aggira come un fantasma ai margini dell’enomondo, sporadicamente menzionato dalla critica di settore quale lubrificante ideale per bordi piscina. Tanto che non fa scalpore scoprire che la normativa europea sull’import-export dei prodotti alimentari non ne riconosca neppure l’esistenza. Non c’è traccia di vino rosa, dunque, nei documenti doganali e spesso (ahimé) nemmeno nelle coraggiose (sigh!) carte di wine-bar e ristoranti, o nelle pizzerie gourmet dove al contrario dovrebbe essere di casa…

Oltretutto, c’è rosa e rosa: dal Chiaretto del Garda al Kretzer altoatesino, dal Rosato del Salento e di Castel del Monte al Cerasuolo d’Abruzzo, dal Cirò Rosato a quello dell’Etna, è tutta una girandola di codici Pantone. Ma parafrasando Angélica Dass, il colore è solo una caratteristica superficiale: il caso e le scelte produttive del singolo vignaiolo possono dare vita a liquidi dal medesimo aspetto esteriore pur provenendo da zone lontanissime tra loro.

Alla fiera dei luoghi comuni, l’uguaglianza unisce e la diversità arricchisce; cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno e magari rosa come le dita di Aurora, dispensatrice di speme fin dai tempi di Omero. In caso contrario, consiglio di rabboccare i calici con questi tre vini coraggiosi (in ordine inverso di apparizione) che sfuggono alle catalogazioni sfidando dogmi e granitiche certezze.

Bergamasca IGP Rosato 035 2021 Pietramatta – Cenate Sopra (BG)
Andrea Sala, fratello di quell’Alessandro già presidente di PIWI Lombardia nonché titolare della cantina Nove Lune, ha iniziato il suo percorso da vignaiolo garagista (due volte vincitore del Garage Wine contest di TigullioVino). Oggi la sua azienda si chiama Pietramatta e 035 (il prefisso telefonico di Bergamo) è l’escamotage che ha utilizzato per fornire in un colpo solo il nome e le coordinate geografiche del suo rosato, un iconoclasta moscato IGP secco prodotto all’interno della DOCG Moscato di Scanzo (denominazione riservata all’omonimo rosso dolce passito). “Non vado matto per il passito perché emergono con troppa enfasi le caratteristiche aromatiche del vitigno”, spiega Andrea al banco d’assaggio per giustificare una così radicale scelta di campo. Dalle sue parole traspare una passione totalizzante che si declina in cure maniacali in vigna e in nano-vinificazioni eseguite con rigore scientifico. Il risultato è un vino affilato come una lama e duro come la roccia. Al naso lo si potrebbe scambiare per un metodo classico non fosse che manca il pizzicore della carbonica. In bocca è secco, asciutto e sapido. Ha tempra montanara, vigore e freschezza. Una bevuta davvero originale. Unica avvertenza: non lasciatelo solo, s’abbina felicemente a cibi d’ogni razza.

Vino rosato Rosacherosanonsei 2018, Benito Favaro – Piverone (TO)
La percentuale di vino rosa sul totale prodotto con uve nebbiolo è praticamente insignificante. All’interno di questo sparuto sottoinsieme non ho memoria di assaggi sorprendenti. Ignoranza mia, forse, ma il Rosacherosanonsei rappresenta un’eccezione. Piverone è un paesino appena fuori Ivrea, dove la famiglia Favaro lavora tre ettari di vigne che poggiano sull’anfiteatro morenico canavese. Camillo Favaro è noto (oltre che per i libri) soprattutto per i suoi bianchi da erbaluce, vini di classe superiore tanto più se si riesce nell’impresa di dimenticarli per qualche anno in cantina. Così ho fatto col suo raro rosato e ne sono stato ripagato. L’eleganza è rimasta intatta ma la fragranza floreale giovanile ha lasciato spazio a una maturità appena più seriosa di spezie e di sale. È come se il vino avesse rallentato per arrivare, di conserva, molto più lontano. Alcuni indizi mi suggeriscono una certa somiglianza col Chiaretto del Garda quando beneficia di un prolungato affinamento. Nebbiolo e corvina non sono parenti eppure mi viene spontaneo pensare: una faccia, una razza.

Cannonau di Sardegna rosato DOC Maria Pettena 2017 Sannas – Mamoiada (NU)
Il vignaiolo Piergraziano Sanna è dotato di un umorismo stralunato che non sai mai quand’è serio e quando invece ti sta rifilando una sonora fàula. Afferma ad esempio che nel 2016 (anno della sua prima vendemmia) non aveva idea di come si facesse il vino. E si dichiara convinto che a Mamoiada chiunque possa produrre vino buono: “raccogli l’uva, la pigi, lasci fermentare in tino, svini, passi in botte e fine”. Per realizzare il rosato Maria Pettena (la strega dipinta in etichetta che rapisce i bambini disobbedienti) s’è complicato un po’ la vita andando ad aggiungere (felice intuizione) al mosto di cannonau ottenuto per pigiatura soffice le bucce di granazza (varietà autoctona a bacca bianca), prelevate da una vasca in fermentazione. All’olfatto è una tale festa di albicocche secche, maquis, miele e caramello che pare d’essere al cospetto d’un passito (non lo è affatto). Al palato è armonioso, caldo (14 gradi alcolici), pieno, rotondo ma secco, in equilibrio perfetto grazie all’acidità che rilancia il sorso dinamico e appagante. Il lunghissimo finale, di iodio e liquirizia, è di una raffinatezza che lascia attoniti. Che razza di vino. Entra dritto nella top-ten dei miei assaggi di sempre. Purtroppo la bottiglia da ½ litro di questa magica 2017 finisce troppo in fretta e, disgrazia peggiore, non ne ho altre in cantina. Colpo da maestro o fortuna del principiante? Alle prossime annate l’ardua sentenza.