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29 Agosto 2023

[FOCUS] Riuso del vetro | L’Unione Europea dice sì, il vino italiano dice no (per ora)

In sintesi:

Il 30 novembre del 2022, la Commissione Europea ho proposto nuove norme a livello dell’Unione Europea in materia di imballaggi per cercare di ottenere una riduzione dei rifiuti.
Il focus è sulla plastica, ma anche il vetro e il suo impatto in termini ambientali sono oggetto di crescente attenzione. Giustamente, perché gli effetti della sua dispersione nell’ambiente rischiano di essere ben peggiori di quel che si credeva. Inoltre, il vetro è la voce che – nella produzione di vino – impatta di più in termini di emissioni di CO2.

La proposta europea riguarda una vasta serie di misure e comprende anche l’obbligo di riuso di una percentuale tra il 5 e il 10% dei contenitori di vetro, incluse quindi le bottiglie di vino. In questo senso, riuso e riciclo devono coesistere per poter meglio minimizzare l’impatto ambientale degli imballaggi.

Il mondo del vino italiano si è già armato di argomenti, che non di rado appaiono più pretestuosi che fondati, per opporsi all’ipotesi di introdurre nuove misure di riduzione dell’impatto ambientale degli imballaggi. Principali argomentazioni: “eh, ma il vino va all’estero“, “eh, ma noi ricicliamo“, come se questi fossero validi motivi per evitare di fare passi avanti ed integrare anche il riuso in una strategia di riduzione dell’impatto. Purtroppo registro che questo atteggiamento di chiusura è tanto quello delle associazioni di categoria, quanto quello di produttori, anche naturali.

Personalmente vado sostenendo da tempo l’opportunità del riuso, portando una vasta serie di argomenti e mettendolo in pratica io stesso nella cantina a cui ho dato vita con due amici; ragioni che torno a proporre. Socializzare la nostra esperienza ha portato altri a prendere spunto ed è una cosa di cui sono orgoglioso. E non siamo soli, ovviamente, perché all’estero c’è grande attenzione sul tema (molta più di quanta ne stia manifestando il settore vinicolo italiano). Il punto centrale rimane uno e semplice: il maggiore impatto ambientale che produrre vino comporta è quello legato alla produzione del vetro delle bottiglie.

Il riuso ed il riciclo, intesi come strumenti non esclusivi di una strategia complessiva, sono opportunità. Per l’ambiente, per tutti noi che viviamo su questo pianeta con l’idea che a viverci possano essere anche i nostri figli… non solo, ma sono un’opportunità anche per chi vuole fare impresa in modo alternativo e invece delle lagne vede delle nuove strade. Anche qui, fortunatamente, ci sono spunti e esempi che danno speranza.

La proposta UE

Lo scorso 30 novembre, la Commissione Europea ha proposto nuove norme a livello dell’UE in materia di imballaggi, come misura per ridurre l’impatto di questi sull’ambiente. In media, ogni europeo produce quasi 180 kg di rifiuti di imballaggio all’anno. Gli imballaggi sono tra i principali prodotti ad impiegare materiali vergini: il 40% della plastica e il 50% della carta utilizzate nell’UE sono infatti destinati agli imballaggi [1]. Tra il 2009 ed il 2019 il volume dei rifiuti da imballaggio è aumentato del 19% rispetto alle previsioni. Ancora peggiori i risultati per quanto riguarda la produzione di plastica, passata da un milione e mezzo di tonnellate del 1950 ai 359 milioni di tonnellate del 2018 [2].

In questo senso, è la plastica il principale obiettivo della strategia europea, dato che proprio gli imballaggi sono, di gran lunga, la prima voce d’impiego di materiali plastici. Nel testo della Commissione la parola “plastica” ricorre 253 volte, la parola vetro 22 volte.

Quanto impatta il vetro

. L’impatto del vetro disperso nell’ambiente

Questa differente attenzione, del vetro rispetto alla plastica, è motivata dal fatto che di inquinamento da vetro non si parli molto dato che questo materiale è considerato inerte, quindi non particolarmente tossico per animali e piante se disperso nell’ambiente. Nonostante questo, negli ultimi tempi sono sempre più numerosi gli studi che hanno l’obiettivo di indagare le reali minacce di questo materiale, date soprattutto dalla crescente presenza di micro e nanoparticelle di vetro nei mari, negli oceani e anche nei suoli di tutto il mondo che, proprio a causa delle dimensioni ridotte, entrano nella catena alimentare [3].

Uno dei principali studi che hanno analizzato, in modo molto attento, l’impatto ambientale del vetro è quello pubblicato nel maggio scorso sul Journal of Hazardous Materials Advances, a prima firma del ricercatore indiano Sonu Kumari [4]. Riporto qui alcuni lunghi passaggi dell’introduzione, ma invitando chiunque fosse interessato ad approfondire la questione leggendo per intero la ricerca.

[…] Per la produzione del vetro viene utilizzato un tipo speciale di sabbia (principalmente sabbia proveniente dal letto dei fiumi e dai fondali marini, non sabbia del deserto), che in ultima analisi porta le comunità costiere ad essere esposte a inondazioni ed erosione (Gavriletea, 2017). È stato riportato che ogni anno 50 miliardi di tonnellate di sabbia marina o fluviale vengono utilizzate per la produzione di vetro in tutto il mondo, il doppio della quantità prodotta da ogni fiume del mondo (Peduzzi, 2014).

[…] Il processo di riciclaggio del vetro è molto costoso e non rispettoso dell’ambiente, in quanto emette molta CO2 durante la fusione del vetro. Per questo motivo, la frantumazione del vetro e il suo utilizzo in discarica sono considerati un’opzione molto più economica. Tuttavia, il vetro può impiegare un milione di anni per decomporsi e nelle discariche questa durata può essere molto più lunga (Abdallah, 2009).

[…] La preoccupazione principale è che le particelle di vetro possano lentamente convertirsi in frammenti più piccoli (danno fisico), come le particelle di dimensioni nano (nanoglass) e micro (microglass).

[…] Il vetro non è composto solo da silice, ma è una miscela di diversi carbonati, silicati, borati, calcio, magnesio e molti altri metalli pesanti come piombo, rame, ferro, stagno ecc. Sono quindi necessari studi approfonditi per determinare la presenza di micro/nano vetro (con i suoi componenti) negli ambienti marini e terrestri (Fig. 2). Un fattore chiave che può contribuire alla tossicità del vetro è l’ingestione di questo micro/nano vetro da parte di organismi marini e il suo trasferimento nella rete alimentare. Tale inquinamento può avere una serie di ripercussioni deleterie. I contaminanti di dimensioni micro/nano sono molto più dannosi rispetto ai macroinquinanti a causa delle loro dimensioni. Le particelle di piccole dimensioni possono mescolarsi facilmente con l’ambiente e spostarsi attraverso il ciclo alimentare o idrico.

L’impatto del vetro in termini di emissioni di CO2

Per quel che riguarda il mondo del vino, il vetro delle bottiglie è anche la principale fonte di emissioni di CO2. Come già riportato su queste pagine:

La singola voce che (nella produzione di vino, ndr) impatta di più in termini di emissioni è dunque la produzione di vetro per bottiglie, che incide da sola per il 24% delle emissioni totali. Questo valore […] offre un’indicazione chiara di dove si trova un punto cruciale della questione.

A ben vedere i dati sono in linea con quelli forniti da Carlo Macchi su Winesurf grazie alla collaborazione con Indaco, azienda spin off dell’Università di Siena che sta sviluppando studi sulla sostenibilità ambientale in campo agricolo. Secondo tali dati, per produrre una bordolese da 360 grammi disperdiamo nell’atmosfera 320 grammi di CO2eq, mentre per produrne una da 600 g le emissioni arrivano a 540 grammi. [5]

Tali dati sono ormai consolidati, perché anche laddove vi siano discrepanze (peraltro minime) nelle percentuali, tutte le ricerche sono concordi su un punto: la produzione del vetro per le bottiglie è la voce più impattante per la produzione di vino.
Ricerche che risalgono al 2013 stimavano già che per la produzione del vetro di ogni bottiglia di vino standard (in vetro, da 0,75 L) finiscano in atmosfera tra 0,41 e 1.6 Kg di Co2/Eq (Christ e Burrit, 2013). Ancora prima, era stata l’azienda toscana Salcheto – realtà modello per la cura e l’attenzione alla sostenibilità ambientale – a stimare la quantità di emissioni per produrre una bottiglia di vino. Era il 2010 e dall’analisi fatta risultò che la produzione di una bottiglia di vino costi all’ambiente 1,83 Kg di CO2. L’analisi ha evidenziato che il 38% delle emissioni è causato dalla realizzazione stessa del vetro. Il 26% delle emissioni di CO2 deriva dal trasporto del prodotto finito e dalle attività commerciali. La coltivazione dei vitigni è responsabile del 27% delle emissioni, in gran parte causate dall’uso di concimi e pesticidi, ma anche dal gasolio utilizzato per trattori e macchinari agricoli. Non va dimenticato che il 9% di CO2 è prodotto dalla fermentazione dell’uva nelle botti.
Ad ogni modo, per chi volesse approfondire il tema di quanto impatta la produzione di vino in termini di CO2, rimando ad un pezzo molto dettagliato che ho pubblicato su Intravino l’anno scorso e che trovate anche in inglese sul mio blog.

Sono importanti – in termini di volumi di emissioni – anche attività come l’uso di energia elettrica per soddisfare il bisogno di una cantina e il consumo di carburante per alimentare i mezzi da lavoro. Tuttavia, nessuna voce impatta più della produzione di vetro per le bottiglie.
In un momento in cui è evidente l’urgenza di ridurre le nostre emissioni di CO2 sarebbe lecito aspettarsi una spiccata sensibilità sul tema. Vedremo che, purtroppo, non è così.

Prima di passare all’analisi di quanto contenuto nella proposta europea, aggiungo – come tavola di sintesi – lo schema con cui The Wine Society ha rappresentato l’impatto, in termini di emissioni, di una singola bottiglia di vino (vedrete che anche in questo caso i dati sono in linea con quelli visti fin’ora). Un modo utile per visualizzare ciò di cui stiamo parlando.

Fonte: The Wine Society – https://www.thewinesociety.com

Riciclo e riuso nella direttiva europea

Le bottiglie di vetro sono il principale imballaggio utilizzato nell’industria vitivinicola e in quanto tali sono oggetto di specifiche previsioni della direttiva europea che abbiamo visto sopra. Ma partiamo dall’inizio.

Gli imballaggi sono necessari per proteggere e trasportare le merci. La loro fabbricazione rappresenta inoltre un’attività economica di grande rilevanza nell’UE. Tuttavia gli approcci normativi differiscono da uno Stato membro all’altro, il che crea ostacoli che impediscono il pieno funzionamento del mercato interno degli imballaggi. […] Tali discrepanze creano incertezza giuridica per le aziende, portando a minori investimenti in imballaggi innovativi e rispettosi dell’ambiente e in nuovi modelli aziendali circolari. [7]

Questo è l’incipit della premessa alla proposta europea. Si riconosce il valore pratico degli imballaggi ed anche la rilevanza dell’industria degli imballaggi in termini economici e occupazionali, ma si rilevano anche le discrepanze che rendono difficile realizzare un sistema europeo del riciclo-riuso che sia più efficiente. Successivamente, si valuta anche l’aspetto ambientale.

Gli imballaggi rappresentano inoltre una delle principali preoccupazioni ambientali [..] e rappresentano il 36 % dei rifiuti solidi urbani. L’aumento dell’uso di imballaggi e i bassi tassi di riutilizzo e riciclaggio ostacolano lo sviluppo di un’economia circolare a basse emissioni di carbonio. Negli ultimi anni gli imballaggi sono aumentati più rapidamente del reddito nazionale lordo, determinando un’impennata delle emissioni di CO2 e di altro tipo, nonché lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, la perdita di biodiversità e l’inquinamento. […] Dal 2012 al 2020 la quota di imballaggi non riciclabili è cresciuta in modo significativo. Spesso, inoltre, gli imballaggi che tecnicamente potrebbero essere riciclati non lo sono perché i processi necessari per la raccolta, la cernita e il riciclaggio non sono disponibili nella pratica o non sono efficienti dal punto di vista dei costi, oppure il prodotto in uscita non è di qualità sufficiente a soddisfare la domanda dei mercati finali di materie prime secondarie. [8]

Sulla base di queste premesse, quanto interessa il settore vino è chiarito all’articolo 26 del testo. In sintesi, i produttori e i distributori di vino, dal 1° gennaio 2030, dovranno garantire che tra il 5% e il 10% dei vini immessi sul mercato impieghino contenitori riutilizzabili, impegno destinato a raggiungere il 15% entro il 1° gennaio 2040. Novità anche per i vini aromatizzati, le bevande a base di vino e i cosiddetti ready to drink, che entro le date indicate dovranno raggiungere traguardi ancora più ambiziosi, rispettivamente pari al 10% e 25% di prodotto disponibile in contenitori riutilizzabili. L’unica eccezione riguarda i vini spumanti, considerando che il riutilizzo delle bottiglie aumenta il rischio di microfratture e – tenendo conto dell’elevata pressione a cui sono sottoposte, indicativamente da 3 a 5 atmosfere – di rotture. [9]

A ben vedere, riuso e riciclo sono due assi della strategia europea per ridurre l’impatto ambientale degli imballaggi. Come più volte sottolineato anche su queste pagine, riuso e riciclo sono pratiche diverse che rispondono a logiche diverse, ma che proprio per questo possono – e anzi verrebbe da dire devono – convivere e coesistere per poter meglio ottenere il minimo livello di impatto ambientale.
Si tratta di una notazione apparentemente banale, ma vedremo che ci sono interessi che spingono a negare questa evidenza.

Niente riuso, siamo italiani

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. Niente riuso, siamo naturali

Uno dei limiti ad una diffusione su larga scala del riuso è che le bottiglie di vino spesso viaggiano per destinazioni assai lontane da quelle in cui vengono confezionate. In tutti quei casi è difficile immaginare (ad oggi) un recupero alla cantina di origine che sia praticabile e se anche lo fosse, questo avrebbe costi ed impatto tali da renderlo poco desiderabile.

Molti, di solito, fermano qui il proprio ragionamento: ok è impossibile. E così facendo si evitano ogni questione.

Confermo quanto scrivevo lo scorso aprile. Una delle risposte più ricorrenti quando illustravo il mio progetto di riuso ad altri produttori – compresi molti produttori naturali e tra questi anche alcuni che di quel movimento sono tra i più autorevoli esponenti – era proprio questa: “Eh ma le mie bottiglie vanno all’estero per più della metà”.

Una risposta piuttosto liquidatoria. Confesso che al sentirla mi sono fatto un po’ di domande sulla retorica della naturalità di fare vino per impattare poco sull’ambiente e poi mandarne più della metà all’estero (con le conseguenze di impatto ambientale che questo inevitabilmente ha… ma capisco che il successo abbia le sue regole, solo non mi spiego perché non porsi almeno la questione di riusare quelle che si potrebbero riusare). E un po’ mi ha fatto pensare se e quanto quel movimento naturale originale abbia preso strade che sono quelle classiche del circolo chiuso di un’avanguardia che non si è più mossa dalle posizioni conquistate in un tempo che oggi è lontano, proprio perché mai più percorso con forza d’innovazione. L’avanguardia che si fa serena forza conservatrice, tanto più insidiosa perché venerata senza possibilità di critica interna? Non lo so e in fondo mi interessa il giusto.
Oppure in queste considerazioni c’è la frustrazione per non essere riuscito a trovare riscontro ad una possibilità che io continuo a vedere e altri evidentemente no. Quindi forse è solo un mio bias.

O forse no. Ma quel che rimane è un punto che vale oltre la frustrazione. Ed è che il vino, oltre a viaggiare, viene anche consumato non lontano da dove viene prodotto, spesso proprio a Km zero. E allora perché non partire di lì? Perché non cercare accordi e formule di recupero con i punti di vendita – e credo non manchino – che consumano il vino di cantine locali a pochi km da dove queste hanno la propria sede operativa? 

Una risposta che mi ha costretto a riflettere, me l’ha data, con un messaggio Whatsapp che riporto qui quasi alla lettera, un amico che quando parla di vino è uno di quelli che ascolto con la massima attenzione, per la sua esperienza, per la misura delle sue parole e anche per l’approccio laico al tema del naturale. Non ne faccio il nome perché mi ha chiesto di rimanere anonimo, ma mi ha concesso di riportare il suo pensiero. Al mio lamentarmi per ricevere la canonica risposta di cui sopra, all’idea del riuso delle bottiglie, questa è stata la sua risposta:

Perché quanto stai facendo non porta valore aggiunto. Tu lavori nella sostenibilità e hai la tua sensibilità sul tema e trovi che quanto stai applicando al vino gli dia valore. Tu dici: è un modo semplice per risparmiare CO2 in un momento in cui ce n’è bisogno, perché non lo fate? Ma chi fa vino e quello ha sempre fatto, ha una sensibilità diversa dalla tua nel valutare certe opportunità, comprese quelle di natura… diciamo ambientale. Un conto è fare bio o biodinamico in vigna. E lì allora posso valutare il valore aggiunto che questo dà al mio prodotto. Magari mi può costare un po’ applicare certe metodologie, ma mi ripaga in termini d’immagine e ha ripagato soprattutto quando si è affermato proprio il movimento naturale… poi lascia fare che poi usi quantità di rame ingenti… Comunque, quanto proponi te è interessante da un punto di vista ambientale, ma meno per dare valore aggiunto al prodotto vino secondo le regole classiche di questo mondo. Che magari è un po’ vecchio e invece per le nuove generazioni le cose sono diverse. Ok, ma molto cinicamente o anche solo spontaneamente, oggi come oggi anche il “naturale” di turno non ci vede niente di utile per sé e la propria immagine. I naturali storici, diciamo così, se ci pensi, si sono affermati in un contesto in cui la loro scelta ha ripagato e ha dato valore aggiunto ai loro prodotti. Questa cosa che stai facendo, Tommi, te lo dico sincero, appare meritoria per chi ha una sensibilità simile alla tua, ma accetta di sentirti dire che tu vieni dalla sostenibilità, non dal vino.

Non so se questa è la risposta definitiva, ma di sicuro ci sono degli spunti (io tuttavia rimango convinto che la questione sia sul tavolo e che fregarsene non sia una buon approccio).

. Niente riuso, siamo Confagricoltura

La cosa curiosa è che gli argomenti di cui sopra ricalcano in parte quelli che il mondo organizzato dell’industria vinicola, degli imballaggi e della produzione del vetro ha già messo in campo per frenare il cambiamento proposto dalla direttiva europea.
Per rimanere nell’ambito vino, i primi squilli di lamentela sono quelli arrivati da Federvini e Confagricoltura.

Un’insidia si annida nell’obbligo di minimizzazione: entro il 1 gennaio 2030 tutti gli imballaggi dovranno ridurre al minimo peso e volume. “Nel nostro settore gli imballaggi, le bottiglie, svolgono una funzione peculiare: non sono solo un mero contenitore, sono veicolo di presentazione al consumatore di prodotti unici, che si differenziano gli uni dagli altri per territorio di provenienza, storia, tradizioni, inoltre, le moderne tecnologie hanno permesso di ridurne il peso di oltre il 30%”, dice la presidente Federvini Micaela Pallini.

Senza spendere troppe parole, credo valga la pena considerare la ratio di un approccio che considera la riduzione del peso delle bottiglie come un’insidia, invece che come un’occasione. E al riguardo, ricordo che chi sta conducendo da anni una battaglia meritoria su questo fronte è Carlo Macchi.

Confagricoltura invece si distingue l’approccio da “eh, ma c’è già il riciclo, cosa volete da noi”.

Gli imballaggi impiegati nel settore vitivinicolo sono prevalentemente bottiglie di vetro – quindi riciclabili al 100% (ma, come abbiamo visto, con costi energetici e di emissioni molto ingenti ndr) – ed, inoltre, l’Italia, nel 2023, ha raggiunto un tasso di riciclo del vetro pari all’88% (in realtà i numeri dicono 80% ndr), a fronte di un obiettivo Ue al 70% entro il 2025. Studi universitari (Università di Wageningen e Politecnico di Milano) dimostrano che il riuso ha performance ambientali migliori del riciclo (vuoto a rendere vs vuoto a perdere) solo entro brevi distanze (non più di 175-200 km), e il vino è un prodotto vocato all’export. “Dati che non solo vanificano i benefici attesi dai Commissari europei – dice il presidente Confagricoltura, Massimiliano Giansanti – ma evidenziano in modo inequivocabile la necessità di valutare con molta attenzione l’introduzione di divieti su alcune tipologie di imballaggio, di tassi obbligatori di materiale riciclato e di obiettivi e target di riutilizzo. Tutte queste misure andrebbero ponderate avvalendosi di evidenze scientifiche a supporto delle decisioni anche in relazione alle ricadute economiche di settori strategici e iconici come quello del vino, e considerando tutte le esternalità ambientali, e anche quelle in termini di sicurezza alimentare e qualità organolettiche, determinanti per il settore”.

La logica del dottor Giansanti (oltre ai numeri citati) non pare molto convincente. In altre parole esiste un sistema che offre performance migliori in un raggio di 200 km. Ora, 200 km non sono esattamente pochi, è più o meno la distanza tra Firenze e Viterbo (in direzione sud) e tra Firenze e Padova (in direzione nord). In quello spazio, il riuso è preferibile al riciclo, ma siccome “il vino è un prodotto vocato all’export”, allora “i dati vanificano i benefici attesi”. No, dottor Giansanti, non sono i dati a vanificare i benefici attesi, a vanificarli è un atteggiamento di conservazione fondato su artifici retorici più che su valide ragioni. La speranza, ovviamente, è che questo possa cambiare.
Anche perché, come vedremo, chi invece di dire no a priori al riuso, ha provato ad applicarlo, ci è riuscito brillantemente.

Purtroppo la sensibilità del settore vino, su questo tema, è quella che è.
Ma per antica abitudine continuo a credere che buone ragioni possano conquistare anche chi inizialmente vi si oppone per un malinteso senso di protezione d’interessi.

Eppure c’è chi riusa

Modifica su foto di IsabelMeyer da Pixabay

. Esperienze di riuso dal mondo

Ho già segnalato, sulle pagine di Intravino, alcune esperienze di creazione di circuiti di riusoReport, nel maggio dello scorso anno, ha realizzato un servizio molto interessante che mostra, tra le altre cose, il modello lituano di riuso e, solo pochi mesi fa, l’Università di Firenze ha premiato il progetto di un gruppo di studenti finalizzato proprio a costruire un sistema di riuso delle bottiglie di vetro.
Negli USA, ci sono ben due progetti che mirano al riuso delle bottiglie di vino partendo da modalità di raccolta il più possibile capillari e che hanno richiesto investimenti non trascurabili, ma che vale la pena continuare a seguire nel loro sviluppo. [10]
Di recente poi, un nuovo articolo di Samantha Cole-Johnson ha riproposto la questione in modo eccellente. Ve ne riporto alcuni passi tradotti, invitandovi anche in questo caso a leggere l’articolo originale per intero.

Bernard Grafé, proprietario di quarta generazione del négociant-éleveur Grafé Lecocq, gestisce l’azienda di famiglia secondo lo stesso modello su cui è stata fondata nel 1879. “Abbiamo sempre lavorato con i produttori in Francia per acquistare vini grezzi da invecchiare e imbottigliare sul mercato belga. Il 90% delle nostre vendite avviene in Belgio e tutte le vendite avvengono nel raggio di 200 chilometri. Questo permette un sistema circolare di recupero e riutilizzo. Ora la gente pensa che questo sistema sia rivoluzionario”, dice Grafé, sorridendo divertito.

Grafé ha ragione a sorridere. Il sistema di riutilizzo utilizzato dalla sua famiglia, perfettamente funzionante da oltre 100 anni, sta attualmente mantenendo i costi del vetro ragionevoli in un Paese che sta sperimentando una carenza di vetro e un aumento dei prezzi a causa della guerra in Ucraina. Ma anche prima che questo fosse un problema, la famiglia Grafé ricorreva al riutilizzo perché ha l’impronta di carbonio più bassa di qualsiasi altra opzione di imballaggio. “Quando si produce una bottiglia di vetro è necessario raggiungere temperature di 1.480 Celsius [2.700 Fahrenheit] per 24 ore, un po’ meno se si tratta di materiale riciclato. Noi laviamo per 30 minuti a una temperatura massima di 80°C [176 Fahrenheit]. Tengo conto del fatto che a volte dobbiamo acquistare nuove bottiglie, ma anche in questo caso la nostra impronta di carbonio è 10 volte inferiore”, afferma Grafé.

Il confronto tra il sistema di riutilizzo di Grafé e altre forme di imballaggio è rivelatore. Nel 2021, Alko e Systembolaget (i monopoli finlandesi e svedesi della vendita al dettaglio) hanno effettuato analisi del ciclo di vita di imballaggi alternativi per individuare il volume di carbonio prodotto da ciascuna opzione di imballaggio: Il PET (polietilene tereftalato, comunemente usato negli imballaggi) è risultato avere un’impronta di carbonio inferiore del 50% rispetto a una bottiglia di vetro monouso da 540 grammi; una lattina di alluminio è inferiore del 66%; un bag-in-box dell’86% e il Tetra Pak dell’88%. Il sistema di Grafé, con una riduzione del 90%, ha le emissioni di carbonio più basse e, mentre tutte queste opzioni hanno una durata di conservazione e producono rifiuti, il vetro riutilizzato non lo fa.

. Socializzare una piccola esperienza

Come sa chi segue Intravino, da un po’ di tempo ho iniziato, nella cantina che ho fondato con due amici, un progetto di riuso delle bottiglie che ho illustrato in modo piuttosto dettagliato in un lungo pezzo dell’aprile scorso. Ho voluto dare conto in modo puntuale delle riflessioni e dei vari passaggi pratici che abbiamo svolto per dare vita ad un progetto di riuso, per ora a Km zero. Questo perché sono convinto che socializzare la conoscenza di questa pratica (anche negli aspetti che a volte sembrano banali, ma che è meglio conoscere per lavorare con più confidenza) sia il modo migliore per aumentare l’impatto di quel che stiamo facendo. Se qualcuno prende questa nostra idea ad esempio per provare a fare altrettanto, ne saremo solo felici.

Una convinzione supportata anche dai contatti avuti dopo la pubblicazione di quell’articolo. Questi sono stati in particolare quelli di ragazze e ragazzi che stavano svolgendo tesi di laurea proprio sul tema del riuso ed erano curiosi di conoscere l’esperienza a cui stiamo dando vita. Ci sono stati poi alcuni giovani imprenditori di settori diversi da quello vinicolo (un ragazzo che lavora in un impianto che produce conserve di pomodoro nel napoletano – settore molto colpito dalla carenza di vetro nei mesi scorsi – e un ragazzo di Bologna che sta avviando un progetto di riuso per bottiglie di superalcolici).

Nel frattempo, siamo andati avanti col lavoro e il 16 agosto 2023 abbiamo imbottigliato 1297 bottiglie del nostro vino bianco e per 76 di esse abbiamo utilizzato bottiglie riusate. Ne avevamo a disposizione in numero maggiore, ma utilizziamo interfalde sagomate (di plastica) che contengono 38 bottiglie ciascuna e per non confondere le bottiglie riusate con le altre, abbiamo usato queste ultime per riempire solo le prime due interfalde. Queste bottiglie saranno destinate principalmente all’assaggio da parte nostra e di amici il cui palato possa esserci d’aiuto per capire se siano riscontrabili differenze sensibili – da verificare anche nel tempo – dovute alla diversa origine delle bottiglie. Siamo convinti di no, perché non vediamo ragioni per cui questo possa essere, tuttavia abbiamo preferito procedere facendo anche degli assaggi ad hoc che pongano il sigillo della prova su quanto stiamo facendo (ho intenzione di tornare su questo argomento e dare nuovi aggiornamenti, magari assaggiando insieme anche ad amici di Intravino, per valutare insieme se davvero ci siano differenze sensibili tra vini imbottigliati in bottiglie riusate).

Si tratta di un’esperienza piccola, piccolissima, microscopica. Ma indica una strada. E ricorda che la differenza non sta fra provarci e riuscirci, ma tra provarci e fregarsene.

Guardare oltre

Sia tra i produttori di vino sia tra quelli di conserve vi è chi indica tra le soluzioni possibili proprio quella di recuperare il vuoto a rendere, che in Italia è una pratica poco utilizzata: secondo il Ministero dell’Ambiente, riutilizziamo meno del 10% delle bottiglie di vetro messe in commercio contro il 70% di altre nazioni del nord Europa. Il valore è così basso perché mancano le infrastrutture necessarie sia per la raccolta delle bottiglie, sia per il loro trattamento. [13]

In un articolo su Linkiesta, Oscar di Montigny ribadisce un concetto chiave: deve essere la politica a spendere il proprio impegno per creare infrastrutture che migliorino il processo di recupero e riuso delle bottiglie. Ma non manca di sottolineare che – visto il ritardo della politica – mentre la politica si accorda, le imprese possono e devono aprire nuove strade.

Da quanto visto fino ad ora l’Italia e le sue imprese e le sue associazioni di categoria, almeno quelle legate al settore vino, non paiono essere molto più avanti della politica. Ma se la mia cantina è un’eccezione talmente piccola da non fare gran testo nel conto dei numeri, di recente ho intercettato – grazie ad Andrea Gori che me lo ha segnalato – chi invece sta introducendo un’innovazione dall’impatto potenzialmente assai rilevante.

Velier, nota società indipendente attiva nella distribuzione di liquori e distillati, lancia in Italia Ecospirits, un innovativo sistema di distribuzione che sfrutta la prima tecnologia al mondo finalizzata a eliminare l’uso del vetro a perdere per gli spirits. L’obiettivo è una drastica riduzione delle emissioni di gas serra e dei rifiuti grazie a un approccio di circular economy.

Questo il testo di un comunicato stampa diffuso lo scorso luglio da Velier. Un progetto – a mio modo di vedere – geniale. Il tutto si fonda su dei recipienti chiamati Ecotote, dotati di un versatore con cui poter riempire le bottiglie degli spirits che si intende utilizzare.

Ogni Ecotote ha una capacità di 4,5 litri, viene sanificato e riempito da Ecospirits direttamente in appositi impianti semiautomatizzati chiamati Ecoplant e consegnato al cliente al posto di una tradizionale cassa di bottiglie.
Questo Ecotote, tramite dosatore Smart Pourer, diventa una micro unit di refill per colmare le singole bottiglie di vetro in uso nella propria attività. In questo modo il cocktail è sempre servito dalla bottiglia, mantenendo intatta l’eleganza del pouring e l’identità dei brand, aggiungendo però il gusto della sostenibilità.

[…] Gli Ecotote rendono possibile un’importante riduzione delle bottiglie a uso singolo per ogni bar che decide di adottarlo, con il contorno di tappi, etichette, cartoni e imballi in plastica.

Un impianto Ecotote. Immagine da Velier

Questa tecnologia è stata sviluppata da una società di Singapore che ne detiene il brevetto e Velier ha visto lungo sviluppando una collaborazione che può avere davvero un impatto rilevante. Come si legge, sempre nel comunicato di Velier, il mondo produce ogni anno circa 40 miliardi di bottiglie di vetro destinate agli spirits, generando 22 milioni di tonnellate di emissioni di CO2. Per ogni bottiglia eliminata grazie alla sua tecnologia, Ecospirits risparmia almeno 550 grammi di emissioni di CO2, vale a dire che ogni cocktail può risparmiare 30 grammi di emissioni.

Credo sia l’esempio migliore per chiudere questo pezzo. La dimostrazione tangibile che mentre c’è chi preferisce non fare niente, c’è anche chi s’ingegna per trovare soluzioni innovative e utili.
Inutile dire di chi – credo – sia il futuro.

[1] Europa.eu
[2] Logisticanews.it
[3] Geopop
[4] Science Direct 
[5] Intravino
[6] Intravino
[7] Europa.eu
[8] Europa.eu
[9] VVQ
[10] Intravino
[11] Ibidem
[12] WineNews.it
[13] Linkiesta