Lo scorso gennaio ho fatto una ricognizione sulla rinascita del “vinello”, che i francesi chiamano Piquette, e sulla sua sempre più crescente fama soprattutto nei paesi anglofoni (l’articolo è qui per chi se lo fosse perso).
Mi sono appassionato alla tipologia ma soprattutto alla sua corrispondenza direi perfetta con la domanda di una fetta di mercato molto specifica. Una bevanda fresca e frizzante, leggera e poco alcolica, un qualcosa che si consuma senza troppe pippe mentali e che ha l’hype e l’aura salvifica del natural-artigianale. Una bottiglia che si presenta con estetica molto figa e cool ma soprattutto una bevanda che attrae immediatamente il consumatore giovane e spettinato: è odiata e schifata da tutti i bevitori saccenti e dai boomer.
Ditemi voi se questo non è l’identikit perfetto del “vino” da avere in carta in ogni wine bar o enoteca aperto dopo il 2020.
Le domande da cui partivo per le ricerche e la scrittura del pezzo sulla piquette sono le stesse dalle quali partire anche per questo articolo sull’acquarello, che ne è la naturale continuazione. E le rimetto qui:
In Italia, vini a basso contenuto alcolico, o meglio bevande – perché legalmente molte di queste non possiamo chiamarle vino – sono sempre esistite. Quali sono quindi le varie tipologie e quali le tecniche di produzione di queste bevande? Come sono state presenti nell’immaginario e nella cultura rurale, contadina e agronomica nei secoli?
Quando l’Italia era un paese essenzialmente rurale, quindi fino agli anni ’60, il vino veniva prodotto anche per la vendita, che era una fonte di reddito minima ma spesso indispensabile al mantenimento della vita stessa della famiglia agricola.
Il vino però a volte per gli stessi produttori, magari semplici mezzadri, era un bene di lusso. Cioè gli stessi produttori non avevano accesso al bene da loro prodotto semplicemente perché era troppo importante vendere per sopravvivere. Nasce, anche così, la consuetudine di ricavare dai prodotti di scarto della lavorazione delle uve un secondo vino, un vinello povero ma tutto sommato dignitoso da bere in casa senza gravare sui futuri e necessari guadagni. Una tradizione che non a caso è praticamente presente in tutto il paese. Tradizione che però sappiamo essere presente sin dai tempi dell’antica Roma, e ovviamente mutuata, come quasi tutto, dalla grande maestria enologica del popolo greco.
La bibliografia odierna sull’argomento è praticamente inesistente e anche gli articoli sono rarissimi. Sembra quasi ci sia una naturale ritrosia a parlare e scrivere oggi di questo vinello. Noi che siamo invece sempre alla continua ricerca di come collegare il nostro presente enologico ad un passato rurale, mistico, puro, glorioso e pure un po’ ancestrale, evidentemente non lo siamo per quel che riguarda una pratica forse ritenuta poco consona al racconto esaltante e celebrativo del vino come quella del vinello e dell’acquarello.
A mio parere, questa tipologia presenta una sua dignità storica e tradizionale ma oltre questo potrebbe avere anche un discreto appeal e soprattutto un buon successo commerciale nel prossimo futuro che si sta delineando come sempre più salutistico, frizzante e dealcolato.
Ringrazio Terenzio Bove, agronomo e professore, che ha gentilmente condiviso la sua pubblicazione L’acquata – Un prodotto della tradizione enogastronomica italiana dove ho trovato spunti molto interessanti che ho spudoratamente saccheggiato per questa piccola ricerca.
Come si produce l’acquarello?
Spulciando le fonti storiche scopriamo che questa tipologia era ben conosciuta sin dall’antichità. La modalità di ottenere un secondo vino dalle fermentazione degli scarti della torchiatura con aggiunta di acqua è quindi ben nota già agli antichi romani che la chiamano vinum secundarium, vinum acinaceum o anche fecatum vinum. Ovviamente lo cita l’immancabile Plinio il Vecchio nel suo super long seller Naturalis historia [XIV, 11, 82]: «Poi, per prendere il più possibile, aggiungono alle vinacce l’acqua piovana, in modo da fare un passaggio secondario. I più attenti dopo averle seccate allo stesso modo prendono gli acini e bagnatili senza raspi con vino eccellente, finché si gonfiano, li pressano e con acqua aggiunta nello stesso modo fanno la seconda qualità».
Varrone nel De re rustica (I,54,3) ci racconta che: “le bucce degli acini pressate vengono gettate nelle botti e sopra vi si versa dell’acqua: il liquido è chiamato lora (acquato o vinello) perché gli acini sono stati lavati e viene dato in inverno agli operai al posto del vino”.
Catone lo chiama invece vino fecatum ovvero vino di feccia e nel De Agri Cultura (153) ci racconta addirittura come produrlo: “metti da parte per questo scopo due canestri da olive della Campania, riempile di fecce, mettile sotto il torchio e spremile”.
I riferimenti bibliografici sono pochi ma molto precisi e dettagliati anche per quanto riguarda il Medioevo e il pieno Rinascimento. Pietro dè Crescenzi nel suo Trattato dell’agricoltura scritto all’epoca di Dante lo chiama “vinum mixtum”. Corniolo della Cornia nelle sue Lezioni di agricoltura del XIV secolo ce ne parla come “acquarello”. Agostino Gallo ne Le venti giornate dell’agricoltore edito a metà del’500 li chiama i “vini utili”. Mentre Michelangelo Tanaglia nel De Agricoltura, testo sempre rinascimentale lo descrive come “mezzo vino”.
La consuetudine con questo vinello rimane così radicata nella nostra cultura da essere presente anche oggi nella nostra lingua, tant’è che anche la Treccani ce ne dà una definizione:
Bevanda moderatamente alcolica, detta anche acquerello o secondo vino o mezzo vino, ottenuta con vinacce fermentate lasciate in infusione per breve tempo in acqua o dalla fermentazione di vinacce vergini addizionate di acqua.
E se la lingua è la migliore delle connessioni che abbiamo con il nostro passato, possiamo scoprire che in tutta Italia la memoria di questo vinello è ben radicata e ancora oggi piuttosto viva. Prendendo a piene mani dall’opuscolo di Terenzio Bove, scopriamo l’esistenza di un nome per questo secondo vinello praticamente in ogni regione.
In Basilicata lo chiamano “acquata vergine”, “sottapera”, “prurzz‟” o anche “cerella”. In alcune zone della Puglia lo chiamano invece “lu vin d’ li muort”, perché si poteva berlo già dal 2 novembre. Sempre in Puglia ma nel foggiano è “cirilla” o “mònucu”, mentre in Salento addirittura esisteva il mestiere del fizzaru o fecciaro che andava in giro raccogliendo le fecce esauste per produrlo. In Campania torna come “acquata” come anche in Calabria, ma nella zona del Vulture lo chiamano “prurz”. In Ciociaria e nel basso Lazio lo chiamano ancora “acquata” e la cosa incredibile è che esiste addirittura una sagra dull’acquata che si tiene tutti gli anni ad ottobre nel paesino di Patrica in Provincia di Frosinone. In Toscana è spesso chiamato “acquata” ma anche “acquarello”, tranne nella zona della Garfagnana dove lo chiamano “vino piccolo” o “vinata” o anche “vino strizzo”. Nell’Argentario esiste il detto “il contadino vende ’l vino e beve la vinella”. In Umbria, Francesco Annesanti produce un “raspato” che è un vino frizzante vero e proprio ma fatto in memoria del vinello degli anziani della sua Valnerina che appunto così lo chiamavano. In Emilia si parla di “puntalone” mentre in Romagna “mezzanino” o “acquadez”. In Veneto lo chiamano “el vin picolo” e lo cita addirittura Carlo Goldoni nella sua commedia Le Massere del 1755, ma è uso in Valpolicella anche chiamarlo “graspia”.
E chissà quanti altri nomi ci saranno in giro per l’Italia.
Nonostante l’enorme familiarità dimostrata, oggi questi “vinelli” sono quasi inesistenti e introvabili in Italia, anche perché esiste un vulnus legislativo che ne frena produzione e commercializzazione. Non è infatti possibile, per un produttore di vino, produrli ed etichettarli come vini veri e propri. L’aggiunta di acqua al vino è frode alimentare per il legislatore: l’acquarello è un vino proibito. Lo può produrre solo una azienda che non sia produttrice e imbottigliatrice di vino. E diventa tutto molto complicato. Come sempre.
Ne produce uno Triple A in collaborazione con Stefano Chioccioli. Un altro lo produce il vulcanico regista di Mondovino e Resistenza Naturale, Jonathan Nossiter, nella sua azienda agricola a Bolsena. E chissà chi altri ancora da scoprire.
Per capire meglio e fare ancor più chiarezza ho chiesto lumi ai ragazzi dei Fermentati del Coppe, un piccolo e artigianale laboratorio fermentativo in quel di Belluno. Da qualche tempo, questi giovani ed entusiasti imprenditori si sono messi in testa di produrre quello che i loro nonni lì nelle Dolomiti chiamavano “vin pizol”.
Anzitutto non vi chiedo cos’è ma come si fa?
Acquerello è la continuazione più naturale che potesse avere il progetto “fermentati del Coppe”, nato nell’estate 2021 come spin OFF del progetto Sakè, che vede gli impianti di produzione occupati solo nella stagione invernale. Già con i fermentati del Coppe nella stagione della vendemmia ci siamo spinti verso una provocazione legislativa per recuperare il gusto autentico di una tradizione passata, il Fragolino. Oggi conosciuto come il vino dei nonni, spesso purtroppo relegato a ricordi d’infanzia in quanto questo vino non si può più produrre perché la varietà dell’uva con cui viene fatto non appartiene alla specie vitis vinifera. Attenzione però: non è consentita la vinificazione, ma nessuno ha mai parlato di fermentazione naturale, in pratica lo facciamo con l’aggiunta di un po d’acqua e zucchero per renderlo una bevanda e non un vino ed eccolo. Chiaramente non un vino ma una bevanda fresca che ci riporta subito indietro nel tempo quando dalle damigiane si poteva “ tirare con la bocca”. Sull’onda di questa fermentazione “vinicola” e avendo alle spalle dei grandi amici vitivinicoltori naturali, non poteva che nascere una nuova bevanda, quella che i francesi e all’estero chiamano con il nome di piquette. Un’idea che mi è stata lanciata da Stefano Canova, bellunese appena tornato dal suo tour mondiale in cui si è distinto come bartender nella preparazione di miscelati fuori da ogni standard. Lui in Australia ha avuto il modo di conoscere queste piquette che essenzialmente anch’esse sono una rievocazione della tradizione dei nostri nonni, perché è ormai chiaro che nel settore food and beverage se si vuol andare avanti bisogna guardare indietro.
Di che cosa stiamo parlando quindi?
Vin pizol, acquerello, sguazzone, graspia, el vin picolo dei pitochi, chiamatelo come volete, ogni regione italiana ha il suo nome che in realtà è il vino dei nostri poveri nonni quello fatto allungando le vinacce con acqua. Il nostro metodo moderno non dimentica la tradizione in cui si faceva per povertà e per riuscire ad avere una bevanda acidula, leggermente alcolica e microbiologicamente molto più sicura dell’acqua in uso ai tempi, ma allo stesso tempo non vede l’utilizzo di vinacce esauste, ma di bucce d’uva freschissime, non vinificate, appena uscite dalla pigiatrice e ancora ricche di liquido zuccheri e piene di aromi. Questo è il nostro acquerello.
Gli ingredienti che entrano nel processo produttivo sono SOLO 3:
Bucce d’uva freschissime (da vigne naturali non trattate)
Acqua in porzione uguale a quella delle bucce
Zucchero che viene aggiunto in piccolissima parte solo per la presa di spuma finale, infatti il minore grado alcolico che presentano questi “vinelli” viene compensato da un’abbondante gasatura naturale presa in bottiglia.
Perché in Italia non esistono?
La risposta è tanto semplice quanto scontata, la nostra legislazione vieta l’aggiunta di acqua al vino e alla vinaccia e quindi risulta impossibile ai produttori di vino poterlo produrre e commercializzare. Ma io non faccio mica vino! La mia è una bevanda fermentata esattamente come lo sono le IGA (birre con l’aggiunta di uva, mosto o bucce) e non sono un viticoltore, ma un alchemico della fermentazione. Come si dice, fatta la legge trovato l’inganno, anche se qui non c’è nessuno da ingannare, anzi si vuole dar di nuovo voce in veste moderna ad una tradizione popolare, andando ad utilizzare quello che per chi non fa macerazione rimane uno scarto molto spesso snobbato anche dalle distillerie. Inutile dire che la grande ricerca per la produzione della piquette è stata quella di contattare ottimi vignaiuoli naturali che curassero il vigneto in maniera maniacale ma senza farci nulla. I primi prodotti nati sono sorti grazie alla collaborazione con un grande del mondo naturale, Alex Della Vecchia dell’azienda Pedecastello. Grazie alle sue bucce hanno preso vita due prodotti: uno da bucce d’uva rosse di varietà pinot noir e una piquette bianca da bucce d’uva di varietà resistenti piwi.
[Immagine: La colazione dei canottieri di Pierre Auguste Renoir. Public Domains da Wikimedia Commons]