Sacerdote: “È orribile. Se gli uomini non si fidano l’uno dell’altro, questa terra potrebbe anche essere un inferno.”
Uomo comune: “È vero. Il mondo è una specie di inferno.”
Sacerdote: “No! Io credo negli uomini. Non voglio che questo posto sia un inferno.”
(Dialogo da Rashomon)
Parresia
“L’obbligo della verità”. Si chiama così il post del 27 giugno scorso con cui Corrado Dottori ha affidato ai social di Meta il racconto di come una diffusa infezione di peronospora abbia colpito fra il 70 e l’80% della produzione dei vigneti “vocati”.
La situazione dei vigneti qui a La Distesa è piuttosto drammatica. In venticinque anni che facciamo questo lavoro non avevamo mai visto nulla di simile. Infezioni di peronospora in grado di distruggere, ad oggi, fra il 70 e l’80% della produzione in vigneti “vocati” sono una roba che non ci saremmo mai aspettati di vedere.
Abbiamo gestito annate molto problematiche da questo punto di vista come la 2010, la 2013, la 2014, la 2018, la 2019 e pensavo di poter affrontare anche questo andamento stagionale estremo… Questo maggio è stato il più piovoso dal 1961 ed ha continuato a piovere anche a giugno… Semplicemente non ce l’ho fatta. È un fallimento piuttosto totale.
L’obbligo della verità è quel che dal greco, per il tramite di Michel Foucault, va sotto il nome di parresia. Una pratica, un metodo, quello proprio dell’impegno ad aderire al vero, ma anche “un atto direttamente politico” [1]. Riferimento che era giusto cogliere per approcciare – credo – nel modo più corretto la questione sollevata dal post di Dottori per “socializzare” questa esperienza. Perché la verità è un concetto pericoloso da maneggiare. Un concetto tipicamente religioso e proprio, in particolare, di quei monoteismi in cui un dio ha rivelato la verità – unica e sola – attraverso la propria parola. Meglio dunque affrontare questa riflessione inquadrando la verità come uno sforzo, un impegno, una pratica.
Vino politico
“Un atto direttamente politico”. Ed anche il far vino de La Distesa è un atto politico. Si tratta di una scelta aperta, manifesta, usata consapevolmente. Dà un preciso carattere all’azienda che ha fondato con Valeria Bochi e non è un caso che di quel post si sia tanto discusso sui social e che io sia ancora qui a scriverne dopo oltre un mese dalla sua pubblicazione. In questo va riconosciuta a La Distesa un’autorevolezza conquistata proprio in forza di quella scelta politica, ma anche della ricerca del rigore con cui darle corpo. E non va trascurata nemmeno una capacità di esercitare in chiave comunicativa ed esattamente politica, il proprio ruolo. In questo senso non è banale considerare come la vicenda peronospora in questa piovosa primavera 2023, fosse rimasta sottotraccia nel discorso pubblico fino al momento in cui La Distesa ha pubblicato il proprio post. Di lì in avanti è venuto fuori di tutto: inchieste, indagini, interviste… ma prima nessuno, per l’antica abitudine a dire che è sempre un’ottima annata, si era azzardato in modo tanto aperto.
Se non fosse chiaro, la visione politica de La Distesa viene esplicitata anche nel post di cui sopra.
… il lavoro che stiamo facendo da anni è più ampio e più utopico dell’uva che serve a fare un vino. Che è un lavoro su un ecosistema. Che è un lavoro che va oltre il commercio. Lo andiamo ripetendo da tempo e va tenuto bene a mente, come una stella polare nei momenti di sconforto e di depressione. Perché viene voglia di ridiscutere tutto, anche le scelte di una vita, ma poi va tutto messo in una prospettiva davvero biologica, cioè che ha a che fare con un organismo vivente più grande di noi. E tutta questa vita che ci circonda e ci ingloba non si misura in singole annate agrarie.
Le coordinate sono le stesse di un pezzo che Dottori affidò proprio a Intravino oltre 13 anni fa (titolo: Il vicolo cieco). In quel contributo, Dottori scriveva:
Fare vino seguendo le (presunte) richieste del mercato significa negare l’essenza del movimento “naturale”, che sintetizzo in 3 punti: critica radicale al modo con cui oggi l’umanità si relaziona alla natura, visione totalmente alternativa dell’agricoltura, lotta ai processi socio-economici dominanti. Oggi è impossibile parlare di “vino naturale” senza affrontare i nodi legati al sistema industriale di produzione, accumulazione e commercio ma soprattutto senza un approccio organico – che partendo dal vignaiolo arriva fino al consumatore, inteso come co-produttore. È altrettanto necessario contestualizzare vino, cibo e agricoltura in orizzonti socio-culturali irriducibili ad una certa idea di Mercato.
La durata è la forma delle cose
Piaccia o no, ma si consideri lo sforzo di coerenza di questa visione. Coerenza nel tempo, dato che quanto sostenuto 13 anni fa, non si discosta da quanto sostenuto oggi. 13 anni non sono pochi e ricordo un gigante che diceva che la durata è la forma delle cose.
Coerenza praticata oltre la convenienza. Il discorso di Dottori parte dalla vigna, arriva in cantina, ma non si ferma sulla sua soglia al momento di far uscire le bottiglie ad un prezzo che a quel punto è conveniente sia il mercato a decidere. A Dottori va il merito di averlo messo in pratica quel discorso e non averlo usato per guadagnare la celebrità necessaria a fare il suo esatto contrario. Nur, Gli Eremi, ma anche Terre Silvate sono vini per i quali credo sia pacifico considerare che potrebbe essere chiesto 3 volte il prezzo attuale, senza per questo avere difficoltà a venderli. Anzi, forse ne guadagnerebbero anche in reputazione secondo la logica classica per cui alto il prezzo, alta la qualità.
Ci sono vignaioli/imprenditori che hanno fatto loro una scelta simile [a quella di Dottori], ma ci sono altrettanti (forse ultimamente anche di più) che il vino naturale lo intendono contro le logiche dominanti solo fin sulla soglia d’ingresso del mercato, perché se poi la logica dominante è la più conveniente, ben venga il più classico dei “è il mercato bellezza (e io non posso farci proprio niente te, se non incassare)!”. E non è raro trovare vini di cantine che sul naturale ci si son buttate con diversi lustri di ritardo rispetto ad un Dottori (ad esempio), ma che sfruttando l’onda non si peritano a chiedere, già dopo poche vendemmie, prezzi che doppiano quelli dei vini de La Distesa. Buon per loro. Forse. [3]
Parentesi naturalini
Forse è anche in questo senso che proprio sulla pagina Facebook de La Distesa ho trovato ripostato, con commento di entusiastica approvazione, un articolo che parla dei vini “naturalini” di Stefano Bagnacani.
Quelli anziani come me se lo ricordano bene come era bello il vino naturale . […] Ci sentivamo, se non rivoluzionari, almeno carbonari e rivendicavamo la diversità come un arrogante diritto. […] Bevevamo vini che i poliziotti della qualità dicevano puzzare, ma che erano facilitatori di baci, di sogni e di poesia.
Erano gli anni di Obama, le cose mutanti e ibride andavano di moda e sembrava si ci fosse spazio per le cose “differenti”.
[…]
Beh, diciamo che le cose sono andate diversamente e a trionfare è stato il “naturalino“ […].
“Vino naturale” è diventata una categoria merceologica, un capitolo nei cataloghi patinati delle grandi aziende di distribuzione. Si dice che sia diventato di moda, ma in realtà a diventare di moda non è il vino naturale, ma la sua versione “normalizzata”, depotenziata, bellina e filtrata (in tutti i sensi).
[…]
I naturalini piacciono a tutti, sono tecnicamente perfetti, hanno smesso di puzzare: sono diventati così perfetti che ormai non li distingui più da tutti quelli ci sono sempre stati. Nessuno parla più di sostenibilità ambientale, di pratiche agricole virtuose, di fare sistema in un territorio. Si parla solo di ciò che c’è nel bicchiere, di pulizia, di piacevolezza. Sono quasi tutti vini carini ma non c’è più niente di veramente “diverso”.
Ci sono alcuni punti su cui è difficile non concordare, il principale è la constatazione che “vino naturale è diventata una categoria merceologica”. Ma ce ne sono tanti altri che invece… beh fatico a condividere l’entusiasmo di Dottori per frasi tipo “nessuno parla più di sostenibilità ambientale” oppure “sono tutti vini carini, ma non c’è più niente di veramente diverso”.
Fatico anche solo per un esubero di certezze assolute che stanno in un ricorrere di “nessuno”, “tutti”, “niente” ecc… Se sforzo di verità deve essere, che sia. E se verità dev’essere metodo, poco ne trovo in questo argomentare.
Realismo capitalista
Ma forse in quel pezzo pieno di argomenti espressi in modi che non mi convincono, c’è di fondo una notazione – credo – che vuole segnalare un punto di vista: alla fine della rivoluzione del vino naturale, a trionfare è stato il mercato. E questo forse poteva essere insito nel controsenso del combattere il capitalismo creando un’azienda. Eppure io credo che se si guarda ad alcune delle mille direzioni del presente, la pratica di utilizzare uno strumento come quello dell’azienda privata per sperimentare alternative alla logica classica del profitto è una vicenda assai diffusa.
C’è una parte di mondo che sta andando esattamente nella direzione in cui aziende che producono impatti positivi per l’ambiente e le comunità, nel mentre che realizzano profitti e quindi mantengono la propria sopravvivenza e garantiscono i propri lavoratori (che spesso divengono soci), sono esattamente le aziende con migliori prospettive per il futuro. Certo su questo trend salgono anche coloro che ne sfruttano l’opportunità economica, ma questo fa parte di quel realismo capitalista che è semplicemente l’acqua in cui nuotiamo.
E del resto è sempre l’inevitabilità del capitalismo [il primo capitolo del libro di Fisher ha un titolo programmatico: “È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo“[4]] a far sì che anche l’esperienza della Distesa non sia priva di contraddizioni. Basti pensare che la vicenda della peronospora sia stata socializzata attraverso i canali social di Meta, azienda che trae profitto dalla vendita di dati di tutti noi (compresi quelli de La Distesa). E in quello spazio social vige la principale regola che a nulla si crede e di tutto è lecito fare ironia.
Rivendicando, per dirla con Badiou, di averci «liberato dalle “fatali astrazioni” ispirate dalle “ideologie del passato”», il realismo capitalista si presenta come uno scudo in grado di proteggerci dai pericoli di qualsiasi ideale o credenza. L’atteggiamento di ironica distanza così tipico del capitalismo postmoderno, dovrebbe immunizzarci dalle seduzioni di ogni fanatismo. Abbassare le nostre aspettative è il piccolo prezzo da pagare per essere messi al sicuro da terrore e totalitarismi, o almeno così ci dicono.
Più prosaicamente, questa teoria si applica in concreto al nostro caso, dato che il post de La Distesa è stato memizzato da Italian Wine DrunkPosting. Era inevitabile e per certi versi avrebbe potuto pure essere trasformato in uno spunto, se si accetta che le regole del gioco social sono quelle che non necessariamente devono piacere, ma che non sarebbe male conoscere per poterle piegare in chiave positiva e dialettica. Ma su questo vorrei tornare in chiusura.
Certo si potrebbe obiettare che combattere il capitalismo è un vaste programme e che comunque, nel frattempo, non sarebbe stato male combattere almeno la peronospora. Ma su questo punto lo stesso Dottori è stato chiaro nel post e ancor più chiaro nelle risposte a chi gli chiedeva spiegazioni: “Abbiamo trattato, siamo intervenuti. Come ho scritto nel post certamente c’è stata una sottovalutazione, e dunque qualche errore, su cui stiamo ragionando. Ma… quando piove a bombe d’acqua tutti i santi giorni per settimane il rame arriva fino a un certo punto. E sia chiaro, a scanso di equivoci: essendo certificati BIO non avremmo comunque potuto utilizzare prodotti di sintesi”.
Sulla vicenda biologica della peronospora di quest’anno e sulle sfide da questa portata a tutti coloro che devono crescere uva (nessuno escluso), il dibattito è in corso (qua su Intravino e WineNews due pezzi utili e opportuni, ma per non guardare solo in casa nostra si tenga presente che a Bordeaux le ondate di mildew sono già due, come riportato su Wine Searcher qui e qui). Sicuramente ci sarà modo di tornarci, ma per chiudere, vale forse un rapido ritorno a quel punto della verità e del dialogo.
Kill your idol
Alla fine questo pezzo non è per parlar di vino e forse non è per parlar di nulla di preciso. O forse sì. Nella misura in cui si sia disposti ad accettare che non esista un solo modo di amare il vino, farlo, raccontarlo o viverlo. Esistono tanti modi quante sono le verità, secondo quel detto per cui non esiste la verità, ma ne esistono almeno 3: la mia, la tua e quella di chiunque altro (a smontare il rischio di quella verità di fede di cui sopra, che va bene solo per chi accetta che la propria sia l’unica).
Esiste l’amare e fare il vino come atto politico di Dottori, la Distesa e altri, così come esiste l’amare e fare il vino come un atto agricolo che deve obbedire alla legge del portare a casa il raccolto sopra ogni altra cosa e che con la visione di Dottori potrebbe divergere (al netto del rispetto degli obblighi bio). Così come esiste l’amare il vino secondo una convinzione tecnica che non si preclude alcuna soluzione purché funzioni, ponendosi come orizzonte del funzionamento uno spazio ed un tempo che sono più immediati. Esiste un modo industriale che organizza il lavoro in modo complesso e misura ogni fase del processo (nel far questo registra un gran numero di dati estremamente utili laddove fossero condivisi). Esistono altri modi ancora ed ognuno di questi si è misurato con una primavera che ha interrogato su scelte e prospettive, fornendo risposte spesso diverse e sovente anche in modo diametralmente opposto.
Quel che rimane è che – per chi ha voglia di ammetterlo – ognuno di questi approcci si misura coi propri limiti, ma quel che a volte manca è la percezione che questi possano diventare opportunità di confronto con altri. Con altri che siano diversi, che abbiano un approccio diverso dal proprio e dalla cerchia dei propri simili. Perché è bello dire che la diversità è ricchezza, fintanto che non si debba essere noi a confrontarci con chi da noi è diverso.
Per questo ho amato quel post de La Distesa, perché Corrado Dottori ha parlato apertamente e davvero sarebbe stato bello se invece di rimbalzi di opinioni chiuse in circoli già disegnati dall’algoritmo e dall’abito classico del parlar di vino in pubblico, si fosse aperta una possibilità di dibattito.
Per abito classico del parlar di vino in pubblico intendo che:
Nel micromondo di chi scrive, chiacchiera, giudica, pontifica di vino spesso il pubblico è fatto da altri che a loro volta scrivono, chiacchierano, giudicano, pontificano. Un ecosistema piccolo, autoreferenziale e con la tendenza a prendersi sul serio ben oltre il ragionevole. Ottenere riconoscimento in un ambiente del genere impone dunque abilità diplomatiche al limite dell’andreottismo. Dosare attentamente i like sui social, non impelagarsi mai in polemiche che potrebbero far risentire qualcuno, prendersela a volte contro qualche malcostume, ma senza esagerare che non si sa mai. Un micromondo, dunque, noiosissimo. All’apparenza. Perché poi ci si rifà in privato di quel che in pubblico non si dice. Ed è lì che, signora mia, ne volano di tutti i colori. Colui o colei a cui hai appena messo like diventa oggetto di scherno nella chat privata, colei o colui con cui hai appena fatto una degustazione lodandone pubblicamente la splendida compagnia e l’assoluta competenza, nel privato di una confidenza più volte confidata diventa il più incompetente dei Carneadi [5].
Ma insomma, alla fine…
Perché se poi una verità esiste è quella che ci racconta tra le righe il film che più di ogni altro racconta come la verità non esista. E quella verità è che tocca aver fiducia negli uomini, nonostante tutto. E anche nel fatto che forse, nonostante i circoli in cui ci chiude l’algoritmo e l’istinto a stare solo tra simili, se trovassimo il modo di parlare fra diversi di problemi che ci sono comuni, ne guadagneremmo in opportunità.
Non è un granché, ma era il meglio che mi son sentito.
[1] Feltrinelli
[2] A latere si potrebbe notare che nel film “Resistenza Naturale” rimane sfumato l’unico momento dialettico di un film in cui per il resto si indulge un po’ troppo al darsi ragione vicendevolmente. Quel momento è quando Dottori dichiara a che prezzo vende il proprio sfuso e Stefano Bellotti obietta che si tratta di prezzi troppo bassi.
[3] Intravino
[4] … ho inevitabilmente pensato alla frase di volta in volta attribuita a Fredric Jameson o Slavoj Žižek, quella secondo la quale è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. È uno slogan che racchiude alla perfezione quello che intendo per «realismo capitalista»: la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente. Un tempo, i film e i romanzi distopici erano esercizi di immaginazione in cui i disastri agivano come pretesto narrativo per l’emersione di modi di vivere nuovi e differenti. Con I figli degli uomini questo non avviene: il mondo che prefigura sembra un’estrapolazione o un’esacerbazione del nostro, più che una realtà alternativa vera e propria. – da Realismo Capitalista, di Mark Fisher, pag. 26 e 27
[5] Intravino