Arrivo a La Costa in una mattina torrida, e subito rimango colpito dalla sensazione di quiete e di ordine che regna ai piedi del bel pino marittimo che domina il complesso: inutile nascondere che spesso in strutture di questo tipo si dia la precedenza ad una disordinata operatività piuttosto che alla cura dei particolari, mentre qui il parco della villa, in collina tra i vigneti, trasmette pace e bellezza.
Siamo a Sarcedo, tra la pianura e l’altipiano di Asiago, che insieme al Pasubio incombe su questa operosa zona pedemontana; la doc di riferimento è Breganze, una delle denominazioni storiche del Veneto ma di cui oggi non si sente granché parlare. Per indirizzarmi alla persona con cui ho appuntamento, mi aiuta l’incontro con un signore dai capelli bianchi, al quale ho l’avvertenza di chiedere se anche lui sia coinvolto nella gestione della fattoria, e così scopro che ho davanti a me Osvaldo Tonello: lo potremmo chiamare “el paròn”, se non si trattasse di una società agricola. Sono di fronte ad uno di quegli imprenditori dinamici del nostro nord-est, pieno di idee geniali che hanno successo e rendono molto in termini economici; è un vulcano di attività, incontenibile…
Lo stereotipo però si ferma qui, dove incomincia la storia individuale, un misto di sofferenze indicibili e gesti bellissimi. Osvaldo qualche anno fa ha perso in pochi mesi il figlio Enrico per una leucemia fulminante; lui e sua moglie Luisa sono rimasti con l’altro figlio Giovanni, gravemente disabile. Decidono di vendere la loro ditta di macchine industriali per lavaggio e tintura dei jeans, tra le più importanti del mondo (ricordo che qui il distretto ha il capofila proprio a Breganze, la Diesel di Renzo Rosso) e inizia la dedizione ai progetti legati alla disabilità.
Oggi sotto il cappello della Fondazione Enrico Tonello sono presenti diverse realtà: a Fara Vicentina è operativa Casa Enrico, un centro diurno per 25 disabili gravi, e sta nascendo una struttura per il “dopo di noi”; qui a Sarcedo e a Zugliano, pochi chilometri di distanza, lavora invece la fattoria sociale, che è agriturismo con ristorante, camere e cantina. Mi piacerebbe andare a visitare il centro e scrivere di quello, ma in fondo sono qui per il vino, così mi dedico a La Costa, guidata da Filippo Mazzucato: bella anche la sua storia, visto che è passato da un’associazione di volontariato al professionismo con i disabili, ed ora qui è responsabile commerciale; veramente sia lui che gli altri dipendenti – come lo chef e il responsabile del ristorante – si occupano un po’ di tutto e in particolare di seguire “i tosi”, come loro chiamano i 13 ragazzi inseriti con progetti per lavoratori svantaggiati. Operano in cucina e in campagna, ma soprattutto il loro contributo è evidente sulle bellissime etichette dei vini, dipinte a mano una per una.
«Magari arrivi qui al lavoro un po’ arrabbiato, poi uno di loro ti abbraccia e ti passa tutto; perché ti abbracciano proprio forte forte» mi dice Filippo, che prosegue illustrandomi brevemente la storia della fattoria mentre mi accompagna tra i vigneti, l’orto (1 ettaro, che basta per un terzo del fabbisogno del ristorante), le cucine, le nuove camere in costruzione, dal momento che sembra questo essere oggi il business più redditizio; la cantina invece mira all’autosufficienza e a guadagnare qualcosa da reinvestire poi nei laboratori del centro diurno, ma la strada da percorrere è lunga, perché se la capacità produttiva dei 6 ettari condotti in biologico è di 50.000 bottiglie, le circa 30.000 attuali ancora non bastano a passare in attivo. Le basi ci sono tutte però, il distributore per l’Italia è molto valido (Proposta Vini) e per l’estero ci sono importatori interessanti, come Wine for the world a New York.
Più che altro, c’è la qualità dei vini a porre le fondamenta per gli sviluppi futuri di una realtà che in fondo produce a questi livelli solo da pochi anni. Non faccio fatica ad illustrare la batteria di assaggi, se non nel trovare sinonimi ad aggettivi come fine o elegante, perché sono queste le caratteristiche principali di tutta la gamma, curata dall’enologo Marco Bernabei.
Spétnat, Veneto IGP. Il nome è un gioco di parole tra pet-nat, la diffusa abbreviazione di pétillant naturel, e “spettinato”, che in dialetto locale vale rustico, un po’ disordinato. In realtà questo rosato ancestrale, blend di vespaiola e merlot, è piuttosto fine, sia al naso, pur con le sue note di mosto mischiate ai fiori, sia in bocca, dove la bollicina è elegante e il finale pulito.
Sbárbat, Veneto IGP. Lo sbarbato è il fratello in bianco del precedente, da sole uve vespaiola; stile davvero à la page, piacevolmente agrumato al naso e – questo sì – un po’ rustico in bocca, secchissimo.
Vespaiolo 2021, Breganze doc. L’espressione del territorio: vinificato ed affinato in acciaio, la nota pungente e acida del vitigno è mitigata dalla vendemmia quasi tardiva, effettuata a fine settembre o addirittura in ottobre. Mi spiego così i profumi caldi, ma mai stucchevoli o surmaturi, che arrivano perfino ai piccoli frutti (nespola, ribes). In bocca invece c’è tutta la freschezza che serve per rendere facile la beva di una struttura comunque importante e che presenta 13.5°.
Belmonte Vespaiolo 2020, Breganze doc. Parto prevenuto, perché dopo la piacevolezza del precedente, non mi convince l’idea di un passaggio in legno. Si rivela invece il fuoriclasse assoluto degli assaggi odierni: al naso il legno è solo un’idea, un accenno, anche perché si tratta di tonneaux di acacia, che danno una nota di finezza, a legare i toni floreali con quelli agrumati. In bocca è grasso, ma non invadente, pulitissimo, tenuto in piedi da una acidità sottile ed elegante. «A volte mi sembra quasi un riesling», commenta Filippo; immagino abbinamenti molto versatili, soprattutto con i funghi.
Sarco Groppello 2017, Veneto IGP. Il più ruspante nella gamma dei rossi, un vino da spiedo o grigliate: forse un po’ troppo evoluto nei suoi profumi caldi, il sorso ha invece un finale piacevolmente amarognolo. Molto più fresca e fruttata l’annata in commercio, 2021.
Cormit Cabernet 2020, Breganze doc. Sono i rossi da vitigni internazionali ad aver reso celebre in passato la zona, e qui l’interpretazione è molto classica, da manuale, con il naso di frutti di bosco, anche in marmellata, e la bocca calda, sostenuta da un tannino raffinato (qui sì che si nota la barrique di rovere) e da una interessante vena erbacea.
Masot Merlot 2018, Breganze doc. Il vino simbolo dell’azienda, sui cui terreni il merlot ha sempre dato risultati eclatanti. Naso di frutta matura e spezie, balsamico; in bocca i suoi esagerati 14.5° per fortuna non si avvertono e anzi sostengono una morbidezza gentile e non stucchevole.
Mentre degusto, ogni tanto passa qualche “toso”, accompagnato da un educatore o dallo psicologo: chi lavora nel parco, chi va a vedere le tre nuove arnie, chi mi contende l’ultima fetta di sopressa dal generoso piatto che mi è stato imbandito; tutti sono eccitatissimi nel raccontarmi che il giorno dopo ci sarà una giornata di festa in piscina.
Mi piacerebbe passare tante mattine così; mi piacerebbe ci fossero tanti posti del genere in Italia; mi piacerebbe poter clonare uomini come Osvaldo Tonello.