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26 Luglio 2023

I Luoghi del Cesanese 2023 | Sono stato in giuria e ho imparato parecchie cose interessanti

Carlo Zucchetti, e Pasquale Pace, insieme ai ragazzi di Extrawine e a Francesca Mordacchini Alfani*, sono anima e core di una piccola guida che sta cercando di mettere luce sul cesanese nel Lazio*. La loro guida si chiama I Luoghi del Cesanese e quest’anno è arrivata alla quarta edizione. Sono stato invitato nel panel della giuria e ho sfruttato l’occasione per avere un quadro più dettagliato dello stato dell’arte del cesanese oggi.

Cominciamo con un piccolo inquadramento. Nel Lazio il cesanese è ormai conosciuto e riconosciuto. Non a caso, è l’unica DOCG rossa della regione. È al di fuori dei confini regionali però che rimane un vitigno e vino ancora troppo poco frequentato. Per capire meglio di cosa parliamo quando parliamo di cesanese mi permetto un’auto-citazione, riprendendo una parte di articolo che ho scritto per la newsletter della rivista Verticale.

La diffusione di questa varietà anche nei vicini Castelli Romani sembra essere collegata alla storica presenza in loco di monaci bizantini orientali, fin dall’anno mille circa. Un viavai che probabilmente ha contribuito a portare da Oriente questa uva a bacca rossa che si è qui storicizzata e sedimentata. Il cesanese è un vitigno con bassa carica antocianica ma altissima componente tannica e con un’acidità che tende a precipitare con l’avanzare della maturazione, rendendolo un vitigno di difficile interpretazione e di delicati e complicati equilibri. Per rimediare a queste sue peculiarità, negli ultimi secoli ci si era approcciati a questo vitigno vendemmiandolo tardivamente, aiutandolo con vari vitigni tintori come il montepulciano o il negramaro, e vinificandolo il più possibilmente dolce anche per la tendenza del gusto del mercato romano, da sempre teso a berlo abboccato e leggermente frizzante.

Nel Lazio si pecca di tradizione vitivinicola, e parlo non di agricoltura ovviamente ma di imbottigliamento. Una mancanza che viene quasi sempre camuffata e coperta grazie al ricorso ad uno dei mali della contemporaneità, ovvero l’invenzione della tradizione. Ogni produttore del Lazio può a ragione affermare che “qui si fa vino da 2000 anni”. E ok, hanno chiaramente ragione. Ma va anche detto però che il passaggio da una semplice e primitiva produzione votata all’autoconsumo a una più tecnica e professionale è avvenuto, come per molti altri territori, solo negli anni del boom economico. Parliamo di fine anni ’50-inizi ’60.
È solo negli anni ’90, grazie a qualche sporadico visionario, che si è iniziato a ragionare finalmente in termini di qualità. Quindi ok i duemila anni di storia vitivinicola legata ai romani e alle loro eroiche gesta ma la verità è che il Lazio dal punto di vista enologico è un bambino in fasce. E non è affatto detto che sia un male.

 

Il cesanese oggi ha trovato la sua zona di elezione in un piccolo fazzoletto di terra al confine tra la provincia di Roma e quella di Frosinone, precisamente tra i comuni di Piglio, Olevano Romano e Affile. In questa piccola zona di provincia, negli anni ’90, l’agricoltura e la gestione delle terre e dei vigneti stavano vivendo un periodo decisamente schizofrenico. Le terre venivano gestite tra le risacche della mezzadria, l’abbandono e una specie di revanchismo restauratore aristocratico-papale che alcuni grandi proprietari terrieri sognavano ancora di poter ottenere grazie ai loro nobili ma decadenti natali.

Roma è sempre Roma, papalina o imperiale che sia, e purtroppo questo vale anche in provincia. Negli anni ’90 però, come dicevamo, un manipolo di produttori/pionieri ha iniziato una piccola rivoluzione nata proprio intorno al cesanese. Gli artefici di questa brusca virata verso la qualità sono stati i Coletti Conti, Casale della Ioria, Marcella Giuliani, Massimi Berucci, Terenzi e pochissimi altri. Tutte aziende che hanno iniziato a tirare la carretta praticamente da zero. A parte Massimi Berucci, le altre citate sono tutte aziende ancora in piena attività, tutte realtà che oggi hanno raggiunto una piena maturità stilistica. Questo gruppo di produttori in quegli anni ha creato una sensibilità comune nell’interpretare il cesanese in chiave moderna, per quei tempi ovviamente. Sono stati capaci di creare vini di ottima fattura, che hanno frutto, succo, estratto e morbidezze in evidenza. Vini figli di quegli anni ma che hanno saputo elevare il cesanese e iniziarne un nuovo racconto.

Grazie a questi pionieri, nei primi anni del secolo nuovo, è poi nata una seconda generazione di vigneron, nuove aziende che smettono di conferire uve e cominciano l’avventura imprenditoriale. Ne nasce la più classica delle storie, ovviamente comune a tutte le zone del vino, ovvero una seconda leva che si è trovata la strada solcata e segnata da chi è venuto prima ma che ha saputo alzare ulteriormente l’asticella e interpretare vitigno e territorio in chiave più “disruptive” e irriverente.

Questa seconda onda è figlia di una idea sempre più intransigente e consapevole di vino artigianale, una ventata di energia e freschezza che ha saputo portare il cesanese verso livelli qualitativi mai raggiunti prima. E parliamo di Damiano Ciolli, Riccardi Reale, La Visciola, Marco Antonelli, Alberto Giacobbe, Michael Formiconi, Proietti.

Da quello che ho assaggiato in giuria e che ho annusato nell’aria frequentando la zona mi rendo conto che è da poco sbocciata quella che possiamo definire una terza ondata, ancor più fresca e sapida. Una leva di produttori che interpreta il vitigno mirando sempre più a leggiadria, beva, acidità, precisione e pungenza. Una idea di vino sempre più legata all’integrità del frutto e alla salubrità della vigna e sempre meno vincolata al solo lavoro di cantina. I loro vini sono ancora in via di definizione ma la barra è ben dritta, poggiando su basi che hanno ormai trenta anni di storia. Parliamo di Abbia Nova, Maria Ernesta Berucci, Carlo Noro, Falcone, Fratelli Lolli.

Sono state necessarie tre decadi per sterzare e portare il cesanese da semplice vinello di paese a rosso realmente interessante del centro Italia, merito anche del grande lavoro di Carlo e di Francesca, di Pasquale e dei ragazzi di Extra Wine con la loro guida. Ad oggi il cesanese sembra avere raggiunto un grado di “maturazione” ottimale per scalare ulteriori nuovi gradini qualitativi ed entrare in una dimensione superiore di considerazione e di mercato. E la cosa bella è che c’è già una nuova onda che sembra pronta a insorgere. Una leva giovane e forte che si sta facendo le ossa vendemmia dopo vendemmia. Segnatevi i nomi di Le Cerquette, Terre Antiche e il fuori zona Gianmarco Iachetti.

In conclusione, tante le cose belle oltre quelle dette, come ad esempio che il 40% dei produttori in guida è certificato biologico, oppure che ci siano le prime sperimentazioni di tappo a vite per il cesanese. Un grande neo e scoglio importante per fare sintesi territoriale e trovare un più facile accesso ai mercati italiani e esteri sembra essere però l’atomizzazione delle denominazioni.

I comuni di Piglio, Olevano Romano e Affile formano un triangolo di meno di 10 km per ogni lato e all’interno di questo piccolo triangolo il cesanese esce con tre diverse denominazioni. Una cosa ovvia a quanto pare per molti produttori che insistono duri e puri sulle differenze tra paesi, comuni e province, ma una follia che genera solo confusione ovviamente per i consumatori e i mercati.

Un unico consorzio e una unica denominazione sembrano cosa necessaria e giusta oltre che urgente. E la guida I Luoghi del Cesanese per fortuna sembra andare in questa direzione.

* Carlo Zucchetti è un critico gastronomico e divulgator,e fondatore del web magazine Il Critico Gastronomico col Cappello. Trovate il suo lavoro su www.carlozucchetti.it sito che cura insieme a Francesca Mordacchini Alfani.
Pasquale Pace è conosciuto come il Gourmet Errante, gastronomo e divulgatore.
Extrawine è invece una associazione di sommelier di Olevano Romano che promuove la cultura del buon bere.