Campano di origine e marchigiano d’adozione, Carlo Gambardella è ingegnere meccanico e ora si occupa di strategie di sostenibilità ambientale per una nota azienda di elettrodomestici. Lettore di Intravino della prima ora, ci ha inviato questo contributo su un tema che potrebbe far saltare sulla sedia non poche persone. [a.m]
Il km zero può avere un grande impatto sociale in termini di relazioni e comunità ma consumare a km zero pensando che si guadagni in termini di impatto ambientale è nella migliore delle ipotesi una forzatura e nella peggiore una bufala. L’impatto dei trasporti in termini di emissioni andrebbe assolutamente ridefinito perché quel che si pensa di sapere spesso è molto distante da quel che è.
Quante volte ci siamo sentiti dire che il km zero fa bene all’ambiente? Immaginare un prodotto alimentare che faccia centinaia o migliaia di km a bordo di camion o navi prima di arrivare sulla nostra tavola ci fa automaticamente pensare al carburante bruciato che emette la famigerata CO2 responsabile del riscaldamento globale.
Negli ultimi tempi stiamo subendo in maniera molto più tangibile e palese gli effetti del cambiamento climatico e la sostenibilità è un tema che oggi preoccupa anche il grande pubblico. Ma siamo sicuri di saperne abbastanza? Dobbiamo innanzitutto partire dal fatto che, quando parliamo di sostenibilità nel senso più lato del termine, non parliamo solamente di tematiche puramente ambientali ma anche e soprattutto sociali. Dal punto di vista sociale, il km zero porta indubbiamente dei vantaggi importanti contribuendo allo sviluppo del territorio e migliorando il tessuto sociale ma dal punto di vista puramente ambientale non è detto che sia proprio così.
Nel mondo scientifico, per valutare l’impatto ambientale di un qualsiasi servizio o prodotto (inclusi quelli alimentari) si utilizza l’LCA: Life Cycle Assessment o Analisi del Ciclo di Vita. L’LCA è uno strumento standardizzato che analizza la vita di un prodotto e ci restituisce la stima del valore che questi ha in diverse categorie di impatto, delle quali la più famosa è l’aumento dell’effetto serra (o Global Warming Potential) misurata in Kg di CO2 equivalente. Se pensiamo ai prodotti alimentari, ad esempio, lo strumento tiene in considerazione di: deforestazione, coltivazione/allevamento, lavorazione, trasporto, packaging e tutto ciò che comporta la filiera logistica e di vendita prima di arrivare al consumatore.
Applicando, dunque l’LCA a diverse categorie di prodotti, potremmo essere stupiti del fatto che per la maggioranza di essi – soprattutto quelli di origine animale – l’impatto del trasporto è una componente trascurabile delle emissioni equivalenti generate dalle fasi di produzione. Nel grafico sotto (da Our World in Data, Hannah Ritchie – 2020) è possibile visualizzare sia le emissioni in termini di Kg CO2 equivalente generati per ogni Kg di prodotto, sia come le diverse fasi del ciclo di vita impattano sul totale.
Mentre sappiamo tutti che in cima alla classifica ci sia la carne bovina, meno scontato è pensare che formaggi, cioccolata, caffè e gamberi possano generare CO2 per 10 o 20 volte il proprio peso. In questi casi, il trasporto conta sempre meno del 10% delle emissioni per la loro produzione. Risulta evidente soprattutto per questi prodotti ad alto impatto, come acquistare a km zero o dall’altro lato del mondo non faccia poi molta differenza.
Per capirci, nello stesso studio viene citata una stima del 2009 secondo cui importare in UK lattuga dalla Spagna nei mesi invernali comporti emissioni inferiori da 3 a 8 volte rispetto alla produzione locale. Simile caso per la Svezia, con l’importazione di pomodori dal sud Europa (in stagione). In Italia, invece, bisognerebbe fare attenzione a frutta e verdura di rapida deperibilità che vengono da molto lontano: fragole, frutti di bosco, mirtilli, pesche, ciliege fuori stagione sono alcuni esempi di frutti che devono necessariamente viaggiare in aereo per raggiungere le nostre tavole, facendoli saltare dalla parte più bassa alla parte più alta del grafico precedente.
Tutto ciò dovrebbe farci ragionare su due cose molto importanti:
1) le nostre scelte alimentari hanno di gran lunga più impatto sull’ambiente rispetto alla scelta di consumare solo km zero
2) è ancora molto difficile fare scelte completamente consapevoli per mancanza di educazione e di informazioni disponibili al consumatore (vedi l’esempio del trasporto aereo, non sempre indicato in maniera trasparente sui prodotti).
Alla fine km zero sì o no? Decisamente sì dal punto di vista sociale ma non illudiamoci di aiutare l’ambiente.
Carlo Gambardella
Un paio di link per approfondire:
How to reduce your food’s carbon footprint, in 2 charts.
The answer is not “eat local.” (Vox)
Reducing food’s environmental impacts through producers and consumers (Science)