L’idea di questa intervista è nata lo scorso novembre in quel di Verona, dove al Forum internazionale sul wine business wine2wine è andato in scena un dibattito sul giornalismo del vino. Nel panel era stato invitato anche il nostro Alessandro Morichetti (e trovate qui un copioso report della giornata). Io ero in platea in prima fila e con Jacopo Cossater e Andrea Gori ci siamo divertiti a contare il numero delle volte in cui venivano citati Mario Soldati e Luigi Veronelli: abbiamo perso il conto.
Nel mondo vino il fenomeno è davvero rilevante e mi sono chiesto spesso quali siano significato e motivazioni dietro questa dinamica così celebrativa e quasi idolatrica. Qualcosa di simile a molti meccanismi teologici capaci cioè di creare mitologia e misticismo più che critica e giudizio.
Quando ho cominciato a conoscere e studiare il lavoro di Alberto Grandi, ho capito che era la persona perfetta con cui dialogare su questo e molti altri temi collegati. La sua bio ci racconta che è professore associato all’Università di Parma, dove insegna Storia delle imprese, Storia dell’integrazione europea e ha insegnato Storia economica e Storia dell’alimentazione. Ha una pagina wikipedia solo in inglese (forse non a caso) che trovate qui.
Se non avete voglia di leggere i suoi numerosi e interessantissimi lavori sulla storia dell’alimentazione, ascoltate allora il suo podcast tratto dal suo libro Denominazione di Origine Inventata – Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani che trovate qui. Intervistarlo è stata una logica conseguenza.
Nel racconto del cibo e del vino, quando e come è successo che “l’identità si è impossessata delle radici e della storia e di conseguenza si è trasformata in un eterno presente senza passato e senza futuro?”
Credo che in Italia questo processo sia iniziato già in pieno boom economico, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60. Del resto, l’industrializzazione italiana fu un fenomeno talmente repentino da travolgere per forza ogni elemento identitario precedente; anzi, quello che avvenne fu proprio un rigetto di tutto ciò che in qualche modo poteva ricordare un passato fatto di povertà, emigrazione e assenza di prospettive. Ecco, in questo contesto, alcuni osservatori e alcuni critici della nuova società dei consumi iniziarono un’opera di conservazione della memoria che poteva essere meritoria, ma che molto spesso si trasformò in una vera e propria reinvenzione del passato. Penso in particolare a Pasolini, che nella sua furia anticonsumistica e anticapitalistica finì per esaltare le presunte virtù di una società rurale fatta di povertà, ignoranza e spesso anche di violenza e sopraffazione. Se volessi ribaltare un famoso modo di dire, potrei affermare che per salvare il bambino si conservò anche l’acqua sporca, dicendo che era pure pulita.
Quando negli anni ’70 il modello di sviluppo industriale cominciò a segnare il passo, la ricostruzione del passato era già pronta e confezionata, andava solo rafforzata e così, dal punto di vista identitario, l’industrializzazione italiana divenne solo una sorta di parentesi che nulla aveva a che fare con l’anima profonda del Paese. Come ci ricorda Nanni Moretti in una famosa scena di Ecce Bombo del 1978, nella quale il perfetto rappresentante dell’italiano medio, chiacchierando al bar, afferma: “Noi italiani stavamo bene a pascolare le pecore e poi abbiamo voluto fare un Paese industriale… sì… industriale… noi italiani siamo fatti così: rossi e neri tutti uguali…”. Scatenando a quel punto la reazione violenta dello stesso Moretti: “Ma dove siamo, in un film di Alberto Sordi? Te lo meriti Alberto Sordi!”. Ecco, negli anni ’70 l’Italia è finita tutta in un film di Alberto Sordi e da quel momento è stata contenta di starci.
I soggetti culturali che vengono citati come assoluti modelli e riferimenti forse in maniera sempre troppo sterile e acritica, virando verso la mistica ormai – e cito Mario Soldati e Luigi Veronelli – sono persone che come tu sostieni hanno teatralizzato e costruito modelli culturali calati dall’alto raccontando e fossilizzando una realtà alimentare che tu definisci adattata e volutamente rustica. Come lo hanno fatto? Ma soprattutto perché?
Lo hanno fatto soprattutto grazie alla televisione; quella stessa televisione che attraverso Carosello, i varietà, la programmazione di film e sceneggiati, veicolava nuovi modelli di consumo e nuovi prodotti. Così, mentre si costruiva una cucina moderna, domestica, urbana e ricca, Soldati e Veronelli ne cercavano le improbabili origini nella valle del Po o in qualche sperduto borgo dell’Italia centrale e meridionale; proprio quei borghi che si stavano inesorabilmente spopolando. Il perché è meno facile da individuare: c’era sicuramente una critica forte nei confronti del modello industriale e in particolare della grande impresa fordista; c’era anche la paura di perdere comunque un patrimonio culturale e una memoria che invece andavano giustamente preservati; c’era probabilmente anche una contrapposizione politica nei confronti di una classe dirigente che veniva percepita come incolta o pusillanime e per questo non in grado di indirizzare l’innegabile sviluppo economico verso una più equilibrata distribuzione della ricchezza. L’accusa era quella di “americanizzare” l’Italia, accogliendo passivamente i nuovi sistemi di produzione e i nuovi modelli culturali.
Perché ha funzionato e continua a funzionare così tanto questo racconto mistico e forse falso, o quantomeno alterato, delle origini?
Perché è comodo e rassicurante. Perché ci permette di credere che l’Italia avrà comunque il suo ruolo centrale nel mondo, senza fare sforzi, soltanto in virtù del suo passato e delle sue tradizioni, cucinando la carbonara senza la panna e raccontando favole sulla sua storia gastronomica. Ma il passaggio da maestri di cucina a macchiette può essere velocissimo e probabilmente è già avvenuto.
Tu sostieni che “Soldati stava cominciando a costruire una mistica delle origini completamente avulsa dalla cucina che il suo pubblico praticava ogni giorno”. Qui cerchiamo di parlare di vino anche se non è esattamente il tuo campo semantico. Vino al Vino di Soldati è un testo cult per moltissimi appassionati (quasi tutti in realtà) che lo ritengono attualissimo. Una sorta di testo sacro.
È proprio in quel testo e ancora di più in “Viaggio lungo il Po” che Soldati inizia ad esaltare tutto ciò che non faceva parte del panorama enogastronomico dei suoi lettori e dei suoi telespettatori. Basterebbe leggere l’incipit di Vino al vino: “da noi tutto ciò che ha un nome, un titolo e una pubblicità, vale in ogni caso molto meno di tutto ciò che è nascosto, ignoto e individuale”. Il che voleva dire che tutto ciò che i suoi lettori compravano nei negozi di alimentari o che bevevano nei ristoranti più rinomati era per definizione di scarsa qualità. In più c’è questa dimensione errante nel suo racconto che lo porta a ribaltare completamente il rapporto ontologico tra prodotto e area di provenienza: non è il territorio che fa il vino, ma il vino che fa il territorio.
Il suo racconto era scollato dal suo tempo ma è attuale per il nostro tempo? Cioè è riuscito a guardare avanti o siamo noi che abbiamo avuto necessità di fissare quello che ha creato con la sua retorica?
La mia analisi mi porta a dire che fino agli anni ’80 il racconto di Soldati sia stato percepito come poco più che un esercizio retorico. Ma la crisi degli anni ’70 prima e l’esplosione dell’individualismo anni ’80 poi portarono a una rivalutazione del lavoro di Soldati, in particolare da sinistra. Movimenti come Arcigola e Slow Food iniziarono a esaltare un individualismo antiamericanista e difensore delle tradizioni, quindi nostalgico e prefascista, ma buono, proprio in piena coerenza con le idee di Pasolini e di Soldati. Per questo non so rispondere alla tua domanda, non saprei dire se Soldati fosse molto avanti o se siamo noi italiani impauriti del XXI secolo che stiamo guardando troppo indietro. Io ne registro i pericoli e gli evidenti paradossi.
E dopo Soldati tu dici che “sarebbe arrivato Luigi Veronelli con la sua esaltazione di una enogastronomia rurale immaginaria e la negazione ideologica di tutto ciò che appariva moderno”. Veronelli come o forse più di Soldati per il mondo del vino viene visto come una figura religiosa. Non esiste nessun discorso enologico che affronti il tema vino dal punto di vista storico senza citare Veronelli, primo di tutti a fare tutto nella comunicazione del vino. Cosa intendi esattamente? Ma soprattutto perché non riusciamo a uccidere gli idoli – kill your idol – e andare avanti?
Che Veronelli sia stato un genio della comunicazione non devo certo essere io a ribadirlo. Veronelli era un uomo dalla cultura sconfinata perfettamente a suo agio nel mondo dei mass-media, il che ne faceva automaticamente un intellettuale del tutto sui generis nel panorama italiano. È evidente che una figura così ingombrante non possa essere tolta di mezzo tanto facilmente. Era e rimane un punto di riferimento quando si parla di storia del vino in Italia. Il problema è che Veronelli è morto da vent’anni e nel frattempo il mondo del vino è cambiato in maniera radicale. Ad esempio, se è vero che fu proprio Veronelli a sdoganare i Supertuscan, in un famoso articolo apparso su Panorama nel 1974, siamo sicuri che di fronte all’evoluzione di quei vini e di quei territori mostrerebbe oggi lo stesso atteggiamento? Io credo che gli idoli vadano uccisi per rispetto nei loro confronti, non farlo significa non averne appreso l’insegnamento e questo vale ancor di più nel caso di Veronelli che era dichiaratamente anarchico e ha sempre spronato tutti a studiare e a nutrire dubbi su ogni aspetto della vita. Oggi in Italia quando si parla di cibo, ma anche di politica e di cultura, tendiamo ad applicare la stessa logica del calcio, per cui pochi giocano e tutti gli altri si limitano a collezionare figurine…
Parliamo troppo di vino e di cibo o ne parliamo solo male?
Secondo me ne parliamo troppo e male. Sul troppo, direi che siamo in buona compagnia, perché mi sembra che anche in Francia e molti altri paesi il tema gastronomico-identitario sia diventato centrale. Come ho già detto, noi rischiamo di diventare delle macchiette, ma soprattutto rischiamo di sopravvalutare il peso dell’enogastronomia nell’economia italiana. Ad esempio, ormai viene ripetuto quasi ogni giorno che il settore agroalimentare italiano valga complessivamente 500 miliardi. Ma 500 miliardi di euro, su un Pil italiano che nel 2022 è stato di 1.900 miliardi, sono qualcosa di più del 26%. In pratica si afferma che più di un quarto della ricchezza italiana dipenderebbe dalla produzione e dalla distribuzione di cibo. A proposito di radici e di identità, io sinceramente non saprei dire dove sia nata questa leggenda statistica, anche se qualche sospetto potrei avercelo, ma sono molto più interessato a comprendere come un dato palesemente falso venga oggi ripreso e acriticamente divulgato anche da chi magari lancia sinceri e accorati appelli sulla necessità di fare ricerca seria sul cibo italiano e sulla sua storia partendo dai dati.
Il peggior vino contadino è migliore del miglior vino d’industria?
Non sono un sommelier, sono un bevitore occasionale e sicuramente poco raffinato, ma direi di no. Non c’è motivo per sostenerlo, né nel settore enologico, né in qualsiasi altro settore. Anzi, io credo che la capacità di sperimentare nuove tecniche e nuovi blend che ha una cantina di medie e grandi dimensioni siano del tutto precluse al contadino. E senza la sperimentazione e l’innovazione non può esserci qualità. Funziona così da sempre, da almeno 6.000 anni.
[Immagine fornita da Alberto Grandi]