Da tempo ormai ho superato la crisi di rigetto dovuta ai miei trascorsi professionali da critico gastronomico e mi sono timidamente riaffacciato sul mondo dei ristoranti. Tradotto: ho ricominciato ad andare a mangiare più spesso fuori casa.
Poche esperienze, senz’altro non significative quantitativamente né qualitativamente, ma sento comunque di essere rimasto indietro, ancorato ad un’idea troppo classica di ristorazione. Ecco alcuni aspetti che, rispetto ai ristoranti che oggi vanno per la maggiore, mi fanno sentire severo, conservatore, reazionario; insomma, vecchio.
La prenotazione: è talvolta già un’impresa riuscire a telefonare dribblando il form da compilare online. Mi sento sempre poco sicuro, quando non parlo con una voce umana.
Il coperto: quello maggiormente diffuso e di moda è facile da descrivere: non c’è.
Temo sia una degenerazione di quando negli anni ’80 si biasimavano i grandi ristoranti che sopra la tovaglia avevano ancora i coprimacchia: certo, da qui a far sparire tutto forse si potrebbe trovare un compromesso. Odio mangiare su una tavola nuda, mi pare anche una questione di igiene: datemi almeno un runner o una sorta di tovaglietta (di stoffa però, non di bambù trattato, di ardesia, di pelle di coccodrillo albino). So bene che la tovaglia è un costo in più per il ristoratore, e ricordo con orrore quando da cameriere, a fine servizio, dovevamo legare e contare tovaglie e tovaglioli per mandarli in lavanderia; sto però facendo riferimento a banchetti per 250 persone, non a dieci tavoli d’élite. Comunque, almeno non fatemi trovare nel conto la voce beffa “coperto”. Eh, ma ti ho portato appetizer, amuse-bouche, pre-dessert e piccola pasticceria. Vabbè, ma allora mettimeli in conto come “bagatelle svuota-avanzi di scarsa soddisfazione non richieste”; qui però esagero, perché a volte sono tra gli assaggi migliori del pasto.
E il resto della mise en place? Per appoggiare le posate ho visto gli oggetti più improbabili, da scomodissime piastrelline (avanzate dalla ristrutturazione dei bagni?) a micro-manufatti barocchi (riciclo di bomboniere?).
Per il servizio dell’acqua, visto che nel giusto rispetto dell’ecosostenibile la minerale di marca sembra scomparsa, si opta ormai d’ufficio per H2O del rubinet… “rigenerata” o “mineralizzata”, versata da pesanti bottiglie di vetro anonime o da caraffe di fattura varia: alcune risultano molto originali, altre lo sono forse un po’ troppo, come una, vista recentemente, che sembrava proprio un pitale, pure un po’ arrugginito.
Non affronto la foggia delle stoviglie, se tali si possono ancora chiamare: richiederebbe un trattato di estetica (magari in proposito comincio a rileggermi quello di Gillo Dorfles sul Kitsch).
Sul servizio del vino invece, niente da dire: se fino a qualche anno fa anche in locali di livello potevano mancare calici adeguati o sistemi consoni per tenere in fresca i vini bianchi, oggi queste sono giustamente considerate basi imprescindibili.
Il menù degustazione: sotto questo aspetto sembra che le degenerazioni siano infinite.
Innanzitutto, vorrei mangiare quello che decido io, senza farmi stupire dai percorsi a sorpresa degli chef. Va bene chiedere al tavolo se si hanno allergie o intolleranze, ma anche riuscendo ad evitare lo choc anafilattico, forse a qualcuno non piace il quinto quarto, e dunque non sarebbe uscito di casa per affrontare una cena con lingua di manzo, fegato di maiale, animelle di vitello (certo, con accostamenti arditi e riuscitissimi con scampi, anguille, capesante, ma le interiora rimangono). Direi che dei piatti alla carta ci vorrebbero sempre, insomma, o almeno una certa flessibilità nel lasciar scegliere dai diversi percorsi.
Il menù degustazione vegetariano o vegano: sappiamo che è una tendenza, ma non ci si può improvvisare, fermo restando che, per un vegano, vedere accanto alle portate a lui dedicate una panoplia di carni e pesci non è molto rispettoso. Mi pare che spesso si assemblino quattro piattini di verdure (uno di legumi, mi raccomando, perché ci vogliono le proteine) dell’onnipresente presunto orto dietro la cucina per timbrare il cartellino veg. Mi piace molto invece la tendenza a valorizzare i vegetali anche su tavole stellate, ma pure qui a volte assistiamo a paradossi minimalisti: sulla carta c’è scritto “Il carciofo”… e ti portano proprio un carciofo nudo nudo, cotto a vapore. Insomma, se non ti chiami Pietro Leemann, che fa alta cucina vegetariana da più di 30 anni, lascia stare (o vai a provare Joia, il suo ristorante a Milano)
La carta dei vini: in media, davvero miglioramenti epocali rispetto ai “miei tempi”. Però, anche qui, eccessi sparsi. Molto bello per esempio vedere sempre più spesso pagine e pagine dedicate agli Champagne; in fondo siamo tra i primi 5 mercati per gli spumanti d’oltralpe, ma possibile che i prezzi siano sovente tutti sopra ai 120 euro? Se, come suppongo, il locale importa direttamente, non sarebbe semplice farsi arrivare anche uno Champagne base, da proporre magari intorno ai 40/45 euro, che – ne sono sicuro – diventerebbe un best seller, dunque una bella “bottiglia da lavoro”? Ma basta fare i conti in tasca al ristoratore: la colonna dei prezzi credo non spaventi il lettore di Intravino, che forse a volte va in un locale più per bere che per mangiare.
Né apro il capitolo sui vini naturali, sottolineo solo che a volte le carte sono fittissime di proposte del genere, ma è difficile scegliere se non si viene guidati bene: una volta, nell’attesa per tutto il pasto che si aprisse nel bicchiere un granitico orange, ho guardato con avidità le bottiglie ghiacciate di Corvo Glicine che vedevo servire a profusione nel dehors della pizzeria accanto al mio blasonato ristorante.
Cosa si mangia 1/l’impatto: sdoganata da decenni anche da noi l’importanza a tavola del senso della vista, mi pare adesso doveroso sottolineare che “instagrammabile” è forse sinonimo di scenografico, ma non sempre di bello e invitante. Dopo aver guardato la pietanza, io non la fotografo, ma in genere la annuso: ecco, dove sono finiti oggi i profumi dei cibi? persi in cucina mentre si finiva il piatto con l’ennesimo fiore edule?
Cosa si mangia 2/lo chef si diverte: lo chef si diverte, ma non per forza anche l’avventore, che non sempre ha voglia di essere stupito e a volte vuole spendere per la sostanza, non per un’idea.
Le manipolazioni degli alimenti inoltre hanno preso una curva inarrestabile: carni cotte a tot °C per un numero xn di ore, poi carbonizzate sulla griglia, poi messe in abbattitore, poi reidratate, poi disidratate, poi grattugiate e infine ricomposte in padella per ottenere l’effetto visivo… di un filet mignon! magari è un bel giochino, ma intanto quante mani hanno toccato la materia prima? quanto tempo ed energia sprecati per non meravigliare più nessuno? Vorrei un cuoco che anziché urlare “guarda come sono bravo”, mi proponesse un assaggio sussurrando “senti com’è buona questa carne”.
Cosa si mangia 3/muschi, licheni, fermentazioni: abbiamo capito che avete scoperto dove sia la Scandinavia, ma proporre oggi cose del genere è come proporre alla fine degli anni ’90 spume, sferificazioni e destrutturazioni di origine catalana. Già visto e assaggiato, grazie.
Proseguirei, ma in realtà devo chiedere scusa. I meno giovani si ricordano senz’altro dei pianti dei tradizionalisti che, all’apparire degli epigoni della nouvelle cuisine, si lamentavano degli accostamenti bizzarri, delle porzioni minuscole, delle cotture insufficienti: ecco, con le dovute proporzioni mi sento un po’ uno di quei dinosauri che all’epoca disprezzavo e che, fosse dipeso da loro, avrebbero fermato la cucina occidentale a salsa olandese, tournedos Rossini e sogliola alla mugnaia.
Ma che ci posso fare se 95 volte su 100 finisco per mangiare a casa piuttosto che al ristorante, magari confortato dalla solida e robusta tradizione gastronomica familiare che esce dalle mani di mia moglie o mia suocera. Santa donna quest’ultima, peccato non legga i blog su internet: mi sarebbe valsa una porzione supplementare dei suoi ravioli ripieni di funghi porcini.