Ciccio fa l’operaio alla Cantina Sociale. È di turno alla pigiadiraspatrice in una di quelle giornate maledette dopo Ferragosto, col caldo opprimente e i trattori dei conferitori che arrivano in continuazione. È stanco e non vede l’ora di tornarsene a casa.
Manca poco quando scorge da lontano il Lamborghini arancione di Fausto. Bestemmia in cuor suo perché teme che sarà il primo di una serie di carichi e che dovrà restare lì ad attenderlo oltre il suo orario di lavoro mentre farà avanti e indietro con la vigna. Ma presto si accorge d’essersi sbagliato: Fausto, dopo avergli rivolto un saluto di circostanza, gli fa sapere che i cinghiali gli hanno spazzolato la malvasia e che l’uva è tutta lì. Ciccio si dispiace e gli batte una pacca sulla spalla. Quasi si sente in colpa per avergliela tirata. Si rattrista anche all’idea che senza quell’uva non si produrrà la gloriosa Malvasia della Botte Buona, un’etichetta a cui è particolarmente affezionato. Ma si sbaglia anche in questo. A fine turno gli capita di incrociare l’enologo che liquida la faccenda con un’alzata di spalle: “prenderemo la malvasia da qualcun altro”.
Passa più o meno un anno. Siamo io e Ciccio seduti al tavolo di un chiosco. Mi sono fatto convincere dalla cameriera a provare questa malvasia naturale prodotta in zona dall’etichetta disegnata a matita e Ciccio mi ha assecondato senza star lì a sottilizzare: oggi pago io e tanto gli basta. La bevuta in effetti è molto convincente, c’è quel misto di frutta profumata, sensazioni tattili e vivacità che solo i vini naturali ben confezionati riescono a portare nel bicchiere. Non a tutti piace, a noi sì. Dentro di me penso beffardo che questo vino sia un po’ l’antitesi della Malvasia della Botte Buona, che anno dopo anno è sempre uguale a se stessa come la Coca Cola, profuma di finto e non sa di niente, ma evito di intavolare la discussione con Ciccio, tanto è inutile.
Passa una settimana ancora e siamo di nuovo io e Ciccio al chiosco.
– Ti ricordi la Malvasia dell’altra volta?
– Vuoi che la ordiniamo di nuovo?
– No, era per dire che la fanno con l’uva di Fausto!
– Come l’uva di Fausto, non è quella che utilizzate per il Botte Buona?
– Sì, pensa che m’aveva raccontato che glie l’avevano mangiata i cinghiali, invece l’ha venduta ad altri di straforo!
E qui, a partire dalla considerazione che la vigna di Fausto non sia esattamente un modello di conduzione bioqualcosa, si apre una voragine sul mio piccolo mondo felice di pseudo certezze.
La prima cosa che mi viene spontanea fare è mettermi ad esaminare l’etichetta della Malvasia del chiosco. In realtà non c’è nulla che rimandi in qualche maniera al vino naturale, a parte il disegno dal sapore spiccatamente bucolico: non c’è la dicitura biologico, tantomeno biodinamico, non dice praticamente niente, tranne: “vino”, “imbottigliato da tal dei tali” e “contiene solfiti”.
Apro il sito del produttore e non trovo nulla di compromettente, non ci sono nemmeno le schede, è praticamente un biglietto da visita.
Mi metto a spulciare un po’ in giro per i siti dei rivenditori e qui la situazione si fa ben diversa: “agricoltura biodinamica”, “certificazione biologica”, “inerbimento spontaneo”, “minimo intervento possibile in vigna”. Negli articoli usciti sui blog, tra le varie menate, si parla di due o tre ettari messi in croce e assai meno di cinquemila bottiglie. Con la scusa di comprare un cartone visito la cantina e mi rendo conto che i volumi nei silos sono ben altra cosa di “assai meno di”: direi piuttosto che si stiano incamminando verso il quinto zero. Dove vengono vendute tutte queste bottiglie? Quasi interamente all’estero, mi confessa il produttore.
A questo punto provo ad allargare un minimo la prospettiva: il tipo è abbastanza noto tra gli appassionati come uno dei sei o sette che negli anni recenti hanno contribuito, insieme ad un paio di vignaioli illuminati della prima ora, a riscrivere un pezzo della fama enologica della zona, all’insegna dei vitigni autoctoni, dell’agricoltura rispettosa e della vinificazione minimale (oggi da sei o sette sono diventati dieci o quindici). Sarebbe interessante capire se questa deriva verso il make-up naturale di uve destinate alla produzione massiva sia un caso isolato o una sciagurata tendenza. Il movente ci sarebbe: il boom vertiginoso della domanda di vini naturali all’estero e nelle grandi città. È noto che, un paio di anni fa, in pieno Covid, alcuni di questi vignaioli avessero esaurito il magazzino già ad aprile e che, più o meno tutti, spedissero all’estero una parte, dal molto consistente al preponderante, del proprio prodotto.
Cè chi la crescita vertiginosa delle richieste l’aveva fiutata già da qualche anno, e si era preparato piantando nuove marze, ma si tratta per lo più di chi è lì da un pezzo, e c’è chi, anche se arrivato dopo, a tutta questa storia dei vini naturali ci crede seriamente ed è rimasto uguale a se stesso, ma c’è appunto chi ha meno da perdere e forse ha anche un po’ meno scrupoli.
Di uva a comprare in teoria se ne trova a volontà, si tratta di pagarla giusto un punticino in più della Cantina Sociale, che peraltro è in lieve crisi ed ha dovuto abbassare le remunerazioni dei conferitori. E se il socio pronto a defezionare (leggasi: rivendere sul mercato quelle uve che, per vincolo pattizio, sarebbe tenuto a consegnare alla cooperativa) è sempre dietro l’angolo, a chiudere il cerchio c’è il margine di profitto dell’operazione che essendo assai consistente aumenta la capacità di spesa di chi ha intenzione di specularci sopra. Basti sapere, tanto per tornare al caso concreto, che il prezzo da scaffale della Malvasia del chiosco è più di due volte e mezzo quello dell’omologo del Botte Buona.
In questo contesto mi suona assai strano, per dire, l’atteggiamento schivo di un paio di produttori, sempre di quei dieci o quindici, che rincorro da un bel po’, senza successo, con l’obiettivo di passare in cantina a vedere le vigne e comprare qualche bottiglia. Mi fa drizzare le antenne pure che, di qualcun altro, non si veda mai una bottiglia (una) in giro, tanto da ricavarne l’impressione che il suo insediamento in zona sia stato studiato a tavolino come una rampa di lancio verso il mercato estero. E, per chiudere in bellezza, scopro che c’è anche il produttore dell’ultimissima ora deliberatamente sprovvisto di vigna, che è sistematicamente accostato agli altri nelle enoteche specializzate e alle serate organizzate dai wine bar.
Insomma, c’è questa cosa delle uve da chi sa dove che si trasformano in vini che in qualche modo vengono spacciati per naturali senza esserlo, sempre che non mi sbagli io e che per esserlo sia sufficiente la vinificazione naïf. C’è che il tutto risulta paradossalmente lecito e formalmente ineccepibile, quantomeno per ciò che riguarda la posizione legale del produttore che si limita a comprare l’uva, come gli è ben consentito fare, e rivendere il prodotto finito mantenendosi sul vago nelle diciture in etichetta, per il resto affidandosi al passaparola tra appassionati o all’informazione di settore, cosa che per giunta gli conferisce un’aura ancora maggiore di credibilità – suona un po’ come se, da piccolo contadino chino sui filari, quale tra il detto e il non detto si dipinge, non abbia tempo e risorse da investire nel marketing (e noi commossi) – nonché quel fascino che inevitabilmente il boccalone medio (cioè io) da sempre associa alle rotte fuori dai circuiti ufficiali.
C’è questa trovata e c’è pure che l’artefice dorme sonni più o meno tranquilli, continuando con profitto sulla rotta imboccata. Ciò che non mi spiego è la posizione degli altri, i vignaioli senza compromessi fedeli alla linea, che continuano in qualche modo ad includere il tizio nella loro rete. Non rischiano che simili trovate intacchino soprattutto il loro prestigio? Non c’è il rischio che questa deriva finisca con l’aprire ai pesci grossi quelle nicchie di mercato conquistate a fatica, bottiglia dopo bottiglia, dai vignerons?
[NB: Questo contenuto è stato inviato da un lettore molto informato sui fatti dopo avere letto Poesia del vino e vita vera. Nomi, uve, vini e ambientazione sono di fantasia. La storia è vera]