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12 Giugno 2023

Vini senza alcol, Sober Curiosity e dealcolizzazione. Numeri, traiettorie e considerazioni sul tema

No e low alcol, sobrietà e moderazione sono alcune delle parole chiave con cui il mondo del vino e degli alcolici in generale si troveranno a fare i conti in un futuro non troppo distante. Questa constatazione proviene dall’analisi di diversi report pubblicati di recente da IWSR – tra le più importanti agenzie mondiali che si occupano di dati relativi a mercati e bevande alcoliche – dall’affermarsi di nuove abitudini di consumo che prevedono una volontaria presa di distanza dall’alcol (soprattutto fra le generazioni più giovani), e dalla crescita di diversi prodotti che diventano alternativi e sostitutivi di vino, birra e alcolici in generale. Se pensavate che il Dry January fosse una bizzarra consuetudine, probabilmente siete fuori strada.

Ma da dove arriva questa ondata di sobrietà e cos’è il sober curious movement? Cosa sono i vini senza alcol e come cambiano i mercati? Mettiamo in fila tutti questi interrogativi e vediamo di capirci qualcosa.

Intro

In principio fu il Dry January, appunto. Sostanzialmente è l’impegno ad astenersi da qualsiasi consumo alcolico per l’intero mese di gennaio dopo l’esuberanza che solitamente ci si concede durante le festività natalizie. Un periodo di forzato allontanamento da calici e drinks che coincide inoltre con un mese di guadagni ridotti per chi con l’alcol ci lavora. Se la sua prima, embrionale, apparizione risale al 1942 in Finlandia, è nel 2013 in Gran Bretagna che il gennaio asciutto inizia a fare parlare di sé.

L’iniziativa parte dall’associazione Alcohol Change, che con la prima edizione raccolse circa 4 mila adesioni. A dicembre dello scorso anno, circa 9 milioni di persone avevano in programma di aderire al Dry January e il numero dei partecipanti sembra possa continuare ad aumentare nei prossimi anni.

Tuttavia il il Dry January è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno diversificato che riguarda i modi con cui il rapporto di tante persone con l’alcol si stia modificando in direzione di un consumo ridotto e più consapevole.
Indagare questo cambiamento significa fare i conti con questioni apparentemente slegate fra loro:
– il fatto che vino e alcolici esercitino una attrazione minore nelle generazioni più giovani rispetto a quelle precedenti
– la diffusione di drinks e bevande analcoliche alternative al vino e non solo
– l’attenzione verso prodotti sostenibili e salutari per il pianeta e il proprio organismo
– un significativo aumento di prove e ricerche medico-scientifiche che certificano come l’assunzione, anche minima, di alcol possa avere effetti dannosi e nocivi sul nostro corpo
– l’atteggiamento di prevenzione e allarme nei confronti delle bevande alcoliche assunto da diverse istituzioni governative nel mondo, che ha diversi punti di contatto con quanto successo nei confronti del fumo e delle sigarette.

A beneficio di coloro che vogliano approfondire i rapporti fra alcol e salute su Intravino trovate diverso materiale che merita la lettura: qui e qui due pezzi esaustivi e argomentati. Ad unire tutti i puntini esce fuori un contesto in cui gli alcolici in generale non possiedono più quell’aura di distinzione e socialità dei decenni scorsi e si esplorano nuovi approcci fatti di astensione totale, cocktails “zero-proof”, vini e birre analcoliche e sobrietà curiosa.

Una nuova sobrietà

È in questo stato di cose che il sober curious movement si forma nel 2018 a seguito dell’uscita del libro Sober Curious di Ruby Warrington, seguito l’anno successivo da un altro testo diventato subito un bestseller, Quit like a woman di Holly Whitaker. Se nel primo libro si evidenzia un ripensamento del proprio rapporto con gli alcolici, valutando con maggior criterio quando e quanto bere, apprezzando periodi di astinenza e valutando con interesse il consumo di bevande con poco o nullo contenuto alcolico, il secondo è un memoir che riflette su quanto la società americana sia impregnata di una nociva cultura del bere, che vede le donne come bersaglio preferito di questa industria e con tanto di critica aspra ai programmi di recupero ritenuti arcaici, patriarcali e disattenti alle esigenze di coloro che vi partecipano. Il sober movement abbraccia quindi un insieme eterogeneo di persone che si rapportano all’alcol in modi disparati. Allo stesso modo, all’interno del grande contenitore di bevande no e low alcol troviamo una grande varietà di prodotti: vini dealcolizzati e aromatizzati, birre e sidri analcolici, soft ed energy drinks, kombucha e sicuramente l’elenco potrebbe allungarsi.

A supporto dell’affermazione del sober movement sempre nel gennaio 2018, il Department of Health and Human Services degli Stati Uniti cancella le linee guida nutrizionali che affermavano che un moderato consumo di alcolici potesse avere effetti positivi nell’abbassare i rischi di malattie cardiache. Nel settembre dello stesso anno la rivista medica Lancet esce con un studio in cui si sostiene che non esista un consumo sicuro di alcol né che possa avere benefici per la salute umana, affermando che sia invece una possibile causa di diverse patologie e decessi.

Nel 2021, sempre su Lancet, uscirà un nuovo studio che certifica come il 4% dei tumori nel mondo sia provocato dall’uso di alcol. Questa attenzione ai rischi sanitari degli alcolici sembra inscriversi in un nuovo paradigma culturale che millennials e generazione Z stanno facendo proprio. Se il mondo delle bevande alcoliche è da sempre visto come poco inclusivo, con una presenza maschile maggioritaria e legato a tradizioni consolidate che mal digeriscono rinnovamento e cambiamento, si vede in questa apertura verso bevande nuove il desiderio di affrancarsi da tutta una serie di abitudini e costumi sociali che appartengono al passato e delle quali forse l’alcol rappresenta un’eredità fastidiosa e sorpassata. Se poi tutto ciò è supportato da studi qualificati e ricerche scientifiche, il quadro che ne esce non è dei più ottimistici.

Low alcol, no alcol: facciamo chiarezza

Cerchiamo quindi di capire cosa si intende per vini no alcol o dealcolizzati, qual è lo stato normativo in Europa e quali sviluppi ci saranno in Italia. La dealcolizzazione innanzitutto è una pratica con cui estrarre l’alcol dalle bevande alcoliche. Senza addentrarci in dettagli tecnici, le tre principali tecniche produttive ammesse dall’OIV e recepite dall’Unione Europea sono: parziale evaporazione sottovuoto, tecnica a membrane e distillazione. Per ognuna esistono pro e contro, con il fine ultimo di ottenere un prodotto che mantenga il più possibile l’identità del vino di partenza.

Già in questa premessa si evidenzia una questione lungamente dibattuta, cioè se questi prodotti per la legislazione vitivinicola possono rientrare nella categoria “vino” o se si debba trovare una dicitura alternativa. La UE, seguendo sempre le indicazioni dell’OIV, ha valutato che i vini dealcolizzati pur presentando caratteristiche organolettiche influenzate dalla sottrazione di alcol provengono dalla stessa materia prima e quindi vanno ricompresi proprio per questa “parentela” fra i prodotti della filiera vitivinicola. Le indicazioni espresse sono quindi quelle di poter mettere accanto al nome vino in etichetta la dicitura dealcolizzato o parzialmente dealcolizzato. Torneremo sul tema poco sotto.

Dal punto di vista delle norme, l’anno corrente ha portato e porterà una regolamentazione dei vini no alcol che di fatto non esisteva nella Comunità Europea. Dal 1 gennaio 2023 è infatti entrata in vigore la nuova PAC 2023-2027 emanata dalla Commissione Europea, ovvero un piano legislativo dedicato alla politica agricola comune, viticoltura dei paesi membri compresa, in cui trova spazio anche un adeguamento giuridico per i vini dealcolizzati, che sarà effettivo a partire dal prossimo 1 dicembre. Facciamo quindi ordine e cerchiamo di capire cosa preveda la UE per i vini dealcolati o no alcol.

Intanto, i vini che possono essere dealcolati appartengono a queste categorie: vino, vino spumante, vino spumante di qualità, vino spumante di qualità di tipo aromatico, vino spumante gassificato, vino frizzante, vino frizzante gassificato. Vengono quindi esclusi vini liquorosi, ottenuti da uve surmature e vini da uve appassite. Come scrivevo sopra, occorre distinguere fra dealcolizzazione totale o parziale. La prima prevede che il titolo alcolometrico effettivo non sia superiore allo 0.5% mentre per la seconda si prevede che sia superiore allo 0.5% e inferiore al titolo minimo previsto dalla categoria a cui il vino di partenza appartiene e che precede il processo di dealcolizzazione. Per i vini Igt e Dop è possibile solo la seconda strada, quella parziale, e per il momento le decisioni sulla loro etichettatura sono demandate ai singoli paesi e alle denominazioni specifiche.

Tuttavia il legislatore europeo ha posto avvertenze e specifiche per una materia che, vista la crescente diffusione e popolarità, mostra ancora diversi coni d’ombra produttivi e legislativi. Già nel regolamento 2021/2117, che ha fissato gli obiettivi e gli orientamenti del successivo PAC, si esponevano cautele rispetto alla possibilità di produrre vini totalmente dealcolizzati con modalità che non fossero state ancora esplicitate. I timori si concentrano intorno agli squilibri generati dalla perdita di volume che si ha eliminando l’alcol e di una parte dell’acqua e al reintegro degli aromi che vengono meno durante il processo di dealcolizzazione.

Proprio in quest’ottica di tutela e chiarimento, in una successiva nota risalente al luglio 2022 la Commissione Europea ha aggiunto una serie di divieti ad alcune pratiche produttive. Come scritto da Paola Marcone su ViniPlus:

la dealcolizzazione è incompatibile con la pratica dell’arricchimento;
non è ammesso né il taglio né la miscelazione tra un “vino” e un “vino parzialmente dealcolizzato” o un “vino dealcolizzato”, a meno che non si intenda produrre una bevanda senza rivendicare l’appartenenza ai prodotti vitivinicoli (quindi non chiamandola in alcun modo “vino”);
le indicazioni della varietà e dell’annata sono consentite anche nel caso dei prodotti dealcolizzati, a patto che siano caratteristiche del vino base; 

non sono ammesse denominazioni di vendita alternative/integrative, quali, a titolo d’esempio, “vino senza alcol” e simili.

Mercati, dati e numeri

Parlare di dati e numeri relativi al mercato delle bevande e dei vini no/low alcol significa approcciarsi a valori in grande crescita ma di entità ancora minime. Nonostante questo, è il fermento intorno a questi mercati a dare il segno di un cambiamento in atto, un carro non ancora vincitore ma sul quale in tanti stanno cercando di saltare. Secondo una ricerca condotta da IWSR, nel 2022 su dieci mercati focus (Australia, Brasile, Canada, Francia, Germania, Giappone, Sudafrica, Spagna, Gran Bretagna e Stati Uniti) il valore della categoria no/low alcol era di oltre 11 miliardi di dollari dagli 8 registrati nel 2018. Inoltre, le previsioni si mantengono positive con una crescita percentuale media del 9% fino al 2026.

Sempre pescando da alcune ricerche del IWSR, ci sono diversi dati che meritano attenzione. Il primo è che l’intero comparto sia trainato dalle bevande no alcol, rispetto a quelle con bassa gradazione, con una quota di mercato pari al 70%. La maggior parte dei consumatori appartiene ai millennials ma i first-timers, quelli che provano per la prima volta, sono in maggioranza giovani della Gen Z. E ancora: la Francia ha la percentuale più alta, il 25%, di nuovi consumatori.

Altra rivelazione interessante è quella relativa al fatto che chi consuma bevande low alcol lo fa soprattutto in sostituzione di alcolici come birra o vino mentre chi beve qualcosa senz’alcol è più orientato ad alternarlo a bevande già prive di alcol come soft drinks, acqua, caffè o tè. Che questa carrellata di dati non sia semplicemente la fotografia di un trend passeggero lo dimostra il fatto che nel 2022 la metà degli adulti in Gran Bretagna abbia acquistato un prodotto no o low alcol, per una quota del mercato no alcol pari al 3% dell’intero comparto britannico delle bevande alcoliche. Numeri ancora minoritari ma sintomatici di uno slittamento dei consumi e delle abitudini.

E in Italia?

Nel nostro paese, piuttosto che valutare i vini senz’alcol come un’opportunità per i produttori di allargare i propri mercati, si continua in un solco tracciato da battaglie identitarie in difesa del vino come bene nazionale, con annessi tentativi di minimizzare i danni provocati dall’alcol. In questo contesto, non si può non ricordare l’assurda polemica scaturita nel 2021 contro una fraintesa proposta della UE di permettere l’aggiunta di acqua ai vini Dop, oppure la levata di scudi contro la decisione del governo irlandese di inasprire le misure nei confronti dell’etichettatura dei prodotti alcolici importati con conseguenti teatrini ministeriali in difesa della salubrità di vino e compagnia.

Nel frattempo, il mondo inizia ad andare in una direzione opposta. L’OMS ha esplicitamente detto che il vino fa male in qualsiasi quantità. Diversi paesi europei si affrettano ad adeguare le proprie legislazioni nazionali per accogliere i prodotti no e low alcol. Senza dimenticare che nel nostro paese si produce più vino di quanto ne venga consumato, venduto o esportato. Situazione quest’ultima che non riguarda solo l’Italia. A Bordeaux i viticoltori scendono in piazza da mesi per richiedere misure d’emergenza contro un calo endemico delle vendite e delle esportazioni. A margine, occorre ricordare che il 50% della popolazione mondiale per ragioni alimentari e motivazioni religiose non consuma alcol. Lo scenario è quindi piuttosto chiaro: i vini e le bevande a basso o nullo contenuto alcolico sono qui per restare. Capirlo ed accettarlo può fare la differenza.